tag:blogger.com,1999:blog-6344143329529119612024-03-13T12:28:20.228+01:00Terapia Sistemico FamiliarePsicologia e Psicoterapia Sistemico Familiare.
Informazioni scientifiche curate dal Dr.ssa Alessandra Di Pasquali, Psicologa e Psicoterapueta, Roma; per Psicolife (www.psicolife.com) - Il portale di informazione scientifica sula psicologia e l'ipnosiDr. Massimiliano Zisahttp://www.blogger.com/profile/08637443253755951339noreply@blogger.comBlogger44125tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-13782928058902435632011-06-27T09:56:00.002+02:002011-06-27T09:57:37.080+02:00Lo sviluppo del linguaggio in età evolutivaL’ontogenesi del linguaggio si sviluppa intorno a 3 tappe essenziali:<br />• Il prelinguaggio (fino ai 12-13 mesi, talvolta 18 mesi)<br />• Il piccolo linguaggio (da 10 mesi a 2 e mezzo 3 anni)<br />• Il linguaggio (partendo dai 3 anni)<br />Partendo dalle grida del neonato che esprimono tutta una gamma di sensazioni (collera, impazienza, dolore, soddisfazione, piacere) sulla base delle risposte che da la madre.<br />Partendo da 1 mese, compare il cinguettio o la lallazione: il cinguettio è costituito all’inizio da suoni non specifici in risposta a stimoli non specifici. La lallazione si arricchisce rapidamente sul piano qualitativo così bene che il bambino sembra in grado di produrre, in maniera puramente casuale, tutti i suoni immaginabili.<br />Dai 6 agli 8 mesi, appare il periodo dell’ecolalia: una specie di dialogo che si stabilisce tra il bambino e sua madre o suo padre; risponde alla parola dell’adulto con una specie di melodia relativamente omogenea, continua. Poco a poco la ricchezza delle emissioni sonore iniziali si riduce per lasciar posto solo ad alcune emissioni vocaliche e consonantiche fondamentali.<br />Le prime parole compaiono spesso in situazione di ecolalia. A 12 mesi un bambino può aver acquisito da 5 a 10 parole: a 2 anni il vocabolario può comprendere 200 parole, con grandi differenze nell’età dell’acquisizione e nella rapidità. La comprensione passiva precede sempre l’espressione attiva. Nel periodo della “parola frase”, il bambino utilizza una parola il cui significato dipende dal contesto gestuale, mimico o situazionale che è soprattutto quello che l’adulto gli dà. Così “to, to” può voler dire “io vedo una macchina”, “io sento una macchina”, “è la macchina di papà”.<br /> Verso i 18 mesi, appaiono le prime frasi, cioè le prime combinazioni di due parle frasi: “pati-papà”, “dodo-bebé”.<br />Il linguaggio<br />È un periodo più lungo e complesso nell’acquisizione che si caratterizza per un arricchimento sia quantitativo (dai 3 anni e mezzo e i 5 anni un bambino può impadronirsi anche di 1500 parole, senza comprenderne sempre il significato in maniera corretta) e qualitativo. <br />Verso i 3 anni l’introduzione dell’”io” può essere considerata come la prima tappa dell’accesso al linguaggio dopo il periodo in cui il bambino si indica con “me” e un lungo periodo transitorio in cui egli utilizza “io me”.<br />L’arricchimento quantitativo e qualitativo sembra prodursi partendo da:<br />• Un’attività verbale libera, in cui il bambino continua ad utilizzare un “grammatica” autonoma, stabilita partendo dal piccolo linguaggio;<br />• Un’attività verbale “mimetica” in cui il bambino ripete nella sua maniera il modello dell’adulto, acquisendo progressivamente parole e costruzioni nuove che sono poi immesse nella sua attività verbale “libera”.<br />Tra i 4 e i 5 anni, l’organizzazione sintattica del linguaggio diviene sempre più complessa in modo tale che il bambino può fare a meno di qualsiasi supporto concreto per comunicare.<br />Ritardo semplice del linguaggio<br />Il ritardo semplice del linguaggio è una manifestazione ad evoluzione favorevole. Essa consiste in una condizione nella quale, all’età di 3-4 anni il linguaggio non è ancora comparso. È un disturbo frequente che colpisce particolarmente i maschi.L’alterazione non interessa solo la parola: questa infatti non viene riprodotta esattamente in conseguenza di una difficoltà ad analizzare la natura dei fenomeni e a riprodurli nel loro ordine. Più spesso al ritardo della parola si associa un ritardo dell’organizzazione del linguaggio.<br />Il disturbo è caratterizzato da:<br />• Sostituzione di consonanti sonore con le sorde corrispondenti ( b sostituito da p; v da f; z da s);<br />• Sostituzione di consonanti ostruttive con le corrispondenti occlusive (z o s sostituite da t o d);<br />• Omissioni di finali; <br />• Semplificazione di gruppi consonantici (ta al posto di sta);<br />• Contrazione o dissociazione di fonemi (i al posto di li).<br />Il ritardo semplice del linguaggio può essere dovuto a disturbi della maturazione cerebrale che comportano una difettosa percezione del linguaggio, a carenze qualitative e quantitative del linguaggio nella famiglia. Il disturbo viene rinforzato dall’atteggiamento dei genitori quando tendono a correggere la pronuncia del bambino o quando mostrano atteggiamenti di compiacimento. Se il ritardo della comparsa del linguaggio si protrae al di là dei 4 anni si dovrà prospettare una condizione patologica. Il periodo tra i 3 e i 5 anni rappresenta una soglia critica per il rischio che l’alterazione si fissi. Per questo è importante un aiuto terapeutico. Si tratterà di una rieducazione ortofonica, di una rieducazione psicomotoria incentrata soprattutto sulle componenti spazio-temporali (ritmo, melodia) e sull’integrazione dello schema corporeo. In alcuni casi una psicoterapia della coppia madre-bambino si dimostra necessaria quando le loro relazioni sembrano organizzarsi con modalità patologiche.<br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-26107569664316623342011-03-14T13:09:00.003+01:002011-03-14T13:11:52.255+01:00J.Bowlby e la terapia familiareIn un articolo intitolato “Reazioni circolari nella famiglia e in altri gruppi sociali”, Bowlby parla di “circoli negativi della nevrosi” nei quali “genitori insicuri creano figli insicuri che crescendo creano una società insicura che a sua volta crea altri genitori insicuri” e in contrasto a tutto ciò indica i circoli positivi della salute e del bisogno di “un grande sforzo terapeutico: quello di ridurre la tensione e di promuovere la comprensione e la cooperazione tra i gruppi di esseri umani”.<br />Le idee di Bowlby sono state sviluppate in Gran Bretagna da John Byng-Hall (1991) che si è occupato di aspetti spaziali dell’attaccamento che possono essere illustrati dalla metafora del porcospino di Schopenhauer come un’immagine del dilemma “troppo lontano-troppo vicino” all’interno delle famiglie.<br />Un certo numero di porcospini si raggruppano in un freddo giorno di inverno tentando di riscaldarsi; ma non appena cominciarono a pungersi l’uno con l’altro con i loro aculei furono obbligati a disperdersi. Tuttavia il freddo li spinse ad avvicinarsi nuovamente ma si ripeté la scena precedente. Alla fine dopo che per molte volte si erano raggruppati e dispersi scoprirono che la cosa migliore per loro sarebbe stata quella di rimanere a poca distanza gli uni dagli altri. (citato in Melges, Swartz, 1989).<br />Byng-Hall (1991), da una prospettiva neuropsichiatrica infantile, vede il paziente sintomatico in una famiglia che non funziona comportarsi come la zona cuscinetto tra i genitori porcospini: quando i genitori cominciano ad allontanarsi il bambino sviluppa sintomi che li fanno riunire e quando di converso essi diventano pericolosamente vicini egli si insinua tra di loro alleviando i pericoli immaginari dell’intimità. Byng-Hall (1985) vede i presupposti e gli assunti che i partner portano dalle loro “famiglie d’origine” nelle loro “famiglie di procreazione” in termini di “copioni familiari”; più precisamente “pattern di interazione o danza” (Minuchin, 1974) che un individuo si aspetta da sé e da coloro che gli sono vicini. La psicoterapia con i suoi obiettivi fondamentali (il bisogno di fornire una base sicura, l’aiuto dato alle persone nell’esprimere e venire a patti con la rabbia e le delusioni, cose che possono essere viste nei termini della protesta della separazione, l’aiuto a raggiungere l’integrazione e la coerenza all’interno di se stessi e con la propria famiglia), rappresenta un tentativo di intervenire in questo ciclo per mezzo dell’alterazione di un “pattern di relazione”.<br />La relazione terapeutica diviene un’importante opportunità di sperimentare, nel tentativo di cambiare i modelli di relazione abituali in un contesto che non è il solito.<br />Lavorando nel processo terapeutico sulle relazioni significative dell’individuo con il mondo circostante ma soprattutto sulla relazione che stabilisce con il terapeuta, è possibile cambiare anche il suo modo di intervenire nel sistema dei rapporti familiari.<br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-44009784566629619052011-02-14T16:04:00.001+01:002011-02-14T16:06:53.379+01:00Teoria dell’attaccamento e pratica psicoterapeutica“L’alleanza terapeutica viene definita come una base sicura, un oggetto interno come modello operante o rappresentazionale di una figura d’attaccamento, la ricostruzione come l’esplorazione dei ricordi del passato, la resistenza come profonda riluttanza a disobbedire agli ordini antichi dei genitori di non parlare o di non ricordare”. (Bowlby, 1988).<br />La teoria dell’attaccamento prevede che quando qualcuno si confronta con la malattia, con la disgrazia o con una minaccia, egli cerchi la figura d’attaccamento dalla quale poter ottenere conforto. Una volta che si è stabilita una base sicura, il comportamento di attaccamento si riduce e si può cominciare ad esplorare: in questo caso l’esplorazione riguarderà la situazione che ha causato la disgrazia e i sentimenti che ha provocato.<br />Lo stabilirsi di una base sicura dipende dall’interazione tra chi chiede e chi dà aiuto. Il paziente porta con se stesso in terapia tutti i fallimenti, i sospetti, le perdite che ha sperimentato nella propria vita. Le forme difensive dell’attaccamento insicuro (evitamento, ambivalenza, disorganizzazione) entrano in gioco nella relazione con il terapeuta. Ci sarà una lotta tra questi pattern abituali e l’abilità del terapeuta nel fornire una “base sicura”: la capacità di essere in grado di reagire in modo sensibile ed essere in sintonia con i sentimenti del paziente, di ricevere proiezioni e di trasformarle in modo che il paziente possa affermare le emozioni in esse contenute fin qui non trasformabili. Nella misura in cui ciò avviene il paziente lascerà andare gradualmente l’attaccamento al terapeuta mentre, simultaneamente, costruisce una base sicura all’interno di se stesso. Il risultato di tutto ciò, mentre la terapia si avvia alla sua conclusione, è che il paziente è più capace di formare relazioni di attaccamento meno ansiose nel mondo esterno e si sente più sicuro dentro di sé.<br />Una parte importante del compito della terapia consiste nel tirare fuori e modificare gli “schemi mentali” del paziente. Dal momento che il paziente ha molte probabilità di sviluppare uno stretto attaccamento al terapeuta, i suoi assunti, le sue preconcezioni e le cose in cui crede saranno portati in gioco nella relazione con il terapeuta, il quale “ri-proporrà”, mano mano che diventano visibili, alla reciproca considerazione.<br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-4170305299477942742011-01-11T11:52:00.001+01:002011-01-11T11:53:50.886+01:00Le caratteristiche di una relazione tra madre e bambino: la relazione di attaccamentoCome sanno bene i genitori dei bambini in grado di camminare, i bambini piccoli sono inclini a seguire le loro figure di attaccamento ovunque esse vadano. La distanza alla quale il bambino si sente a suo agio dipende da fattori come l’età, il temperamento, la storia dello sviluppo, dal sentirsi affaticato, spaventato o malato; casi questi che aumentano il comportamento di attaccamento.<br />La teoria dell’attaccamento accetta il primato che viene dato solitamente alla madre come principale fonte di cure ma non c’è nulla nella teoria che suggerisca che i padri non possano egualmente diventare principali figure di attaccamento se capita loro di provvedere in gran parte alla cura del bambino.<br />La prova migliore della presenza di un legame di attaccamento è l’osservazione della reazione alla separazione. Bowlby identificò la protesta come la risposta primaria provocata nei bambini dalla separazione dei genitori. Pianto, grida, urla, morsi, calci: questi “cattivi” comportamenti sono la reazione normale alla minaccia di un legame di attaccamento e hanno la funzione di cercare di ripararlo e “punendo” chi si prende cura del bambino, di evitare ulteriori separazioni.<br />Modelli operativi interni<br />Il bambino in fase di sviluppo costruisce una certa quantità di modelli di se stesso e degli altri basati su pattern ripetuti di esperienze interattive.<br />Questi “assunti di base” (Beck et al., 1979), “rappresentazioni delle interazioni che sono state generalizzate” (Stern, 1985), “modelli di relazioni di ruoli” e “schemi sé-altro” (Horowitz, 1988), formano modelli rappresentazionali relativamente fissi che il bambino usa per predire il mondo e mettersi in relazione con esso.<br />Un bambino con un attaccamento sicuro immagazzinerà un modello operativo interno di una persona che si prende cura di lui, amorosa, affidabile e di un sé che è meritevole di amore e di attenzione e questi assunti influiranno su tutte le altre relazioni.<br />Un bambino con un attaccamento insicuro può vedere il mondo come un posto pericoloso nel quale le altre persone devono essere trattate con grande precauzione e si considererà come un incapace e non meritevole di amore. Questi assunti sono relativamente stabili e duraturi: quelli che si costruiscono nei primi anni di vita sono particolarmente persistenti e non hanno molte probabilità di essere modificati dall’esperienza successiva.<br />L’attaccamento nella vita adulta<br />Quando i bambini crescono e cominciano a raggiungere l’adolescenza tollerano periodi sempre maggiori di separazione dai loro genitori. Questo vuole dire che la “fase” di attaccamento è stata superata per essere sostituita dalla “genitalità adulta”?.<br />Secondo il modello di Bowlby, assolutamente no. A suo parere, l’attaccamento e la dipendenza, sebbene non più evidenti allo stesso modo che nei bambini piccoli, rimangono attivi lungo tutto il ciclo vitale.<br />Per gli adolescenti la casa dei genitori rimane ancora un importante punto di riferimento e il sistema di attaccamento tornerà a riattivarsi in momenti di minacci, malattia o stanchezza. La turbolenza dell’adolescenza può essere vista come generata dalla complessità del distacco e del nuovo attaccamento che l’adolescente deve portare a termine: svincolarsi dagli attaccamenti genitoriali, tollerare il lutto di questa perdita, proseguire attraverso la fase transizionale dell’attaccamento al gruppo dei coetanei, verso la costituzione d un legame di coppia nella vita adulta.<br />In conclusione, le madri sicure hanno facilità e prontezza nelle risposte e sono in sintonia con i loro bambini fornendogli una base sicura per le esplorazioni, sono capaci di tenerli e di far fronte ai loro disagi e alla loro aggressività in modo soddisfacente. Esse hanno una visione equilibrata della propria infanzia.<br />I loro bambini, sicuri da piccoli, crescendo diventano ben adattati socialmente e hanno una capacità realistica di autovalutazione e la sensazione che alla separazione, per quanto sia triste e dolorosa, si può rispondere in modo positivo. <br />I bambini insicuri, specialmente quelli evitanti, tendono ad avere madri che trovano difficile l’holding (capacità di contenimento) e il contatto fisico che non rispondono ai bisogni del proprio bambino e nono sono ben sintonizzate sui suoi ritmi. I genitori dei bambini insicuri falliscono nel rispondere in modo appropriato alle angosce del proprio bambino, o ignorandolo (evitandolo) o diventando troppo coinvolti, facendosi prendere dal panico, o rimanendoci impantanati (ambivalenti).<br />Le manifestazioni comportamentali di queste cattive sintonie nella relazione genitore-figlio includono fenomeni come il distogliere lo sguardo, l’autolesionismo (come lo sbattere la testa), il rimanere immobili o il litigare violentemente.<br /><br />Ingredienti essenziali di un buon genitore<br />• Sensibilità<br />• Sintonia<br />• Capacità di contenimento<br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-72123853523653037322010-10-06T10:01:00.002+02:002010-10-06T10:02:36.702+02:00I 6 stadi dello sviluppo sensomotorio di J. PiagetJ. Piaget considera lo sviluppo cognitivo nella prima infanzia come intelligenza sensomotoria. <br />Il periodo sensomotorio è il primo di quattro periodi generali nei quali J. Piaget divide lo sviluppo. A sua volta il periodo sensomotorio è diviso in 6 stadi.<br />Si pensa che la sequenza di stadi sia assolutamente costante o invariante per i bambini di tutto il mondo. Perciò Piaget affermava che non può accadere che uno stadio sia saltato nel passaggio ad uno stadio successivo né può accadere che il passaggio attraverso gli stadi abbia un corso di sviluppo diverso da quello dato. Le conquiste di ciascuno stadio sono cumulative, cioè le abilità acquisite in uno stadio precedente non sono perdute con l’arrivo a nuovi stadi.<br />Stadio 1 (da 0 a 1 mese)<br />Alcuni riflessi quali la suzione, i movimenti oculari e i movimenti della mano e del braccio sono destinati a subire cambiamenti significativi durante lo sviluppo in funzione dell’esercizio costante e dell’applicazione ripetuta a oggetti ed eventi esterni.<br />Piaget attribuiva molta importanza a questi riflessi perché li considerava come i primi mattoni, forniti in modo innato, della crescita cognitiva umana. Egli li concepiva come i primi schemi sensomotori del bambino.<br />Stadio 2 (da 1 a 4 mesi)<br />Questo stadio è segnato dalla continua evoluzione degli schemi sensomotori individuali e dalla graduale coordinazione o integrazione di uno schema nell’altro.<br />Quindi per quanto riguarda gli schemi individuali associati a processi quali succhiare, guardare, ascoltare, vocalizzare e afferrare gli oggetti, ricevono una quantità enorme di pratica quotidiana spontanea. Di conseguenza ciascuno di questi schemi è sottoposto ad una elaborazione evolutiva considerevole durante questi mesi.<br />Successiva è la progressiva coordinazione o il fatto che ogni schema è messo in relazione ad un altro, per esempio la visione e l’udito cominciano ad essere collegati funzionalmente. Sentire un suono porta l’infante a girare la testa e gli occhi nella direzione della fonte del suono.<br />Due altre importanti coordinazioni tra schemi che si stabilizzano bene nel secondo stadio sono quelle succhiare-afferrare e vedere-afferrare. Nel rimo caso, il bambino sviluppa la capacità di portare alla bocca e succhiare la mano e qualsiasi cosa la mano abbia afferrato e di afferrare qualsiasi cosa gli sia in qualche modo entrata in bocca.<br />La coordinazione di visione e prensione permette al bambino di localizzare ed afferrare gli oggetti sotto la guida visiva e reciprocamente di portare davanti agli occhi per ispezionarla visivamente qualsiasi cosa che una mano invisibile abbia toccato e afferrato.<br />L’evoluzione della coordinazione vedere-afferrare costituisce uno sviluppo notevole perché la capacità di coordinare mano e occhio dimostrerà di essere un mezzo e uno strumento estremamente importante per esplorare l’ambiente del bambino ed apprendere cose su di esso.<br />Stadio 3 (dai 4 agli 8 mesi)<br />Al bambino capita di eseguire qualche azione motoria, spesso manuale, che per caso produce dei risultati nell’ambiente non anticipati ma interessanti. Poi il bambino deliziato, continua ad eseguire l’azione ripetutamente, a quanto sembra per il puro piacere di riprodurre e di sperimentare di nuovo il risultato nell’ambiente.<br />Il bambino può afferrare e scuotere un nuovo giocattolo e quel nuovo giocattolo può rispondere inaspettatamente con un tintinnio, dopodichè è probabile che il bambino in questo stadio si fermi meravigliato, lo scuota di nuovo ma con esitazione, senta il suono di nuovo, lo scuota ancora una volta più velocemente e con maggiore confidenza e poi continui a ripetere l’azione per un periodo di temo considerevole.<br />Dal terzo stadio il bambino mostra sempre più interesse negli effetti delle sue azioni sugli oggetti e gli eventi prestando molta attenzione a quegli effetti. Gradualmente comincia ad esplorare gli oggetti; egli diviene cognitivamente e socialmente più estroverso nel corso dello sviluppo sensomotorio.<br />Stadio 4 (dagli 8 ai 12 mesi)<br />La maggiore novità di questo stadio è la comparsa di comportamenti che sono intenzionali, diretti ad un fine. Le azioni del bambino hanno un significato e sono dirette ad uno scopo e per questa ragione appaiono più intelligenti e più cognitive di quelle degli stadi precedenti.<br />Nel quarto stadio il bambino esercita intenzionalmente uno schema come mezzo, in modo da rendere possibile l’esercizio di un altro schema, come fine o scopo. Ad esempio può premere la vostra mano (mezzo) per fare in modo che continuate a produrre un interessante effetto sensoriale (fine) che stavate producendo per lui. Egli ha maggiore riguardo nei confronti del mondo esterno.<br />Stadio 5 (dai 12 ai 18 mesi)<br />È costituito dall’esplorazione molto attiva, intenzionale, del tipo pro ed errore, delle proprietà reali e delle potenzialità degli oggetti, in gran parte attraverso la ricerca instancabile di modi diversi di agire su di essi. Il bambino ha un approccio sperimentale orientato alla esplorazione e alla scoperta del mondo esterno.<br />Se gli si presenta un oggetto nuovo lui cercherà attivamente di mettere a nudo le sue proprietà strutturali e funzionali provando diversi schemi di azione e inventando nuove variazioni su vecchi schemi di azione.<br />Con la sua tendenza estremamente esploratoria e tesa verso l’accomodamento, il bambino del quinto stadio spesso scopre mezzi completamente nuovi per raggiungere vecchi scopi.<br />Stadio 6 (dai 18 i 24 mesi)<br />Questo è costituito dalla capacità di rappresentare gli oggetti della propria cognizione per mezzo di simboli e di agire con intelligenza rispetto a questa realtà interiore e simbolizzata invece che rispetto alla realtà esterna, non simbolizzata. <br />Il bambino del 6 stadio mostra una capacità iniziale di produrre e capire che una cosa (es. una parola) sta per o rappresenta simbolicamente qualche altra cosa (ad es. una classe di oggetti). Inoltre il bambino diventa capace di differenziare mentalmente il simbolo e il suo referente cioè la cosa che il simbolo rappresenta.<br />Per fare un esempio di questa differenziazione il simbolo potrebbe essere fisicamente molto diverso dal suo oggetto referente eppure essere ancora trattato come una rappresentazione di quell’ oggetto.<br />Reagire a oggetti di cognizioni interiori generati internamente, decisamente non è un’attività sensomotoria: funzione semeiotica.<br />Il bambino simbolico del 6 stadio può provare dei modi alternativi interiormente, immaginandoli oppure rappresentandoli a se steso invece di renderli concreti nel comportamento esplicito. Se viene trovato un procedimento efficace in questo modo, è per mezzo del pensiero invece che attraverso l’azione diretta “invenzione di nuovi mezzi attraverso delle combinazioni mentali”.<br />Anche il gioco del “far finta” compare nel 6 stadio.<br />L’intelligenza sensomotoria non scompare con la fine della prima infanzia, anzi alcune forme di funzionamento sensomotorio rimangono disponibili per tutta la vita. Tuttavia una volta che la capacità simbolica è emersa, le forme di intelligenza più alte e potenti hanno luogo su un piano diverso.<br />I bambini hanno più competenza di quanto J. Piaget pensasse ma non è stato ancora proposto un modello alternativo di vasta portata e completamente soddisfacente.<br />Quasi tutti gli psicologi sono concordi nel sostenere che l’organismo umano funziona secondo i principi generali dell’organizzazione e dell’adattamento. Concordano nel dire che il bambino costruisce attivamente il suo mondo anziché registrare passivamente gli stimoli esterni e che lo sviluppo cognitivo è il prodotto di continue interazioni tra il bambino e l’ambiente.<br />Sottolineano inoltre l’enorme importanza del contributo dato dalle ricerche empiriche di Piaget alla nostra comprensione dello sviluppo del bambino e questo nonostante facciano rilevare come il bambino sia più malleabile e meno soggetto ai limiti della maturazione di quanto non credesse Piaget.<br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-54092933134129309882010-09-09T14:49:00.001+02:002010-09-09T14:50:59.060+02:00Lo sviluppo cognitivo nella prima infanzia come intelligenza sensomotoria: J. PiagetSecondo J. Piaget ciò che l’infante mostra in modo sempre più chiaro e meno ambiguo mano mano che cresce è la capacità di poter fare azioni sensoriali e motorie organizzate, con un “apparenza di intelligenza” cioè esibisce un funzionamento intellettuale completamente pratico, legato all’azione. <br />L’infante “sa” nel senso che riconosce o anticipa oggetti o eventi familiari che vede spesso e “pensa” nel senso che si comporta verso di essi con la bocca, le mani, gli occhi ed altri strumenti sensomotori in modo predicibile, organizzato e che mostra adattamento.<br />L’autore parla di “schema sensomotorio” che ha a che fare con una specifica classe di sequenza di azioni sensomotorie che il bambino compie ripetutamente e abitualmente, normalmente in risposta a classi particolari di oggetti e di azioni. Lo schema è la capacità cognitiva sottostante che rende possibili tali configurazioni organizzate di comportamenti.<br />Per esempio, del lattante che automaticamente succhia qualsiasi cosa passi per la sua bocca si direbbe che possiede uno schema di suzione, cioè che possiede una capacità duratura ed una disposizione ad eseguire una specifica classe di sequenze motorie (movimenti organizzati per la suzione) in risposta ad una particolare classe di eventi (l’inserzione di oggetti che possono essere succhiati).Una proprietà molto importante degli schemi consiste nel fatto che possono essere combinati o coordinati per formare delle unità più grandi di intelligenza sensomotoria. Mano mano gli schemi elementari vengono gradualmente generalizzati, differenziati e soprattutto coordinati e integrati tra loro in vari modi complessi, il comportamento del bambino comincia a sembrare sempre più “intelligente” e “cognitivo” ed in modo sempre meno ambiguo. <br />Secondo J. Piaget l’infante è motivato a continuare ad agire nei riguardi di un evento finché non ne ha compreso il significato, cioè finché ciò che era inizialmente incomprensibile è stato reso comprensibile. Ad esempio il bambino esplora e fa esperimenti finché non scopre la causa dell’inatteso rumore forte, mostra segni di estremo piacere e soddisfazione quando la scopre e ripete poi continuamente l’azione di battere con grande entusiasmo. Per J. Piaget questo è un esempio della natura della motivazione cognitiva e del cambiamento cognitivo.<br />Il bambino si crea nuove esperienze per mezzo delle sue stesse azioni nell’ambiente; alcune di queste esperienze mostrano di essere particolarmente interessanti perché vanno al di là di ciò che essa capisce al momento. Esso poi agisce ulteriormente verso queste nuove esperienze, variando i suoi schemi nello sforzo di arrivare ad una nuova comprensione.<br />I comportamenti che portano a nuove conoscenze è probabile che vengano ripetuti attraverso azioni, così il sistema cognitivo si avvia verso nuovi e migliori livelli di comprensione.<br />L’idea è che vi sia una motivazione intrinseca al sistema cognitivo e non proveniente solo da impulsi quali la fame o il dolore.<br />Il periodo sensomotorio è il primo di quattro periodi generali nei quali J. Piaget divide lo sviluppo. A sua volta il periodo sensomotorio è diviso in 6 stadi.<br />Si pensa che la sequenza di stadi sia assolutamente costante o invariante per i bambini di tutto il mondo. Perciò J. Piaget affermava che non può accadere che uno stadio sia saltato nel passaggio ad uno stadio successivo né può accadere che il passaggio attraverso gli stadi abbia un corso di sviluppo diverso da quello dato. Le conquiste di ciascuno stadio sono cumulative, cioè le abilità acquisite in uno stadio precedente non sono perdute con l’arrivo a nuovi stadi.<br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-29185206649524334002010-07-15T17:03:00.002+02:002010-07-15T17:04:47.341+02:00Ontogenesi delle emozioniUn contributo importante alla conoscenza dello sviluppo delle emozioni, della paura in particolare, è quello fornito dalla scuola comportamentista che sostiene che il dolore gioca un ruolo importante, attraverso il meccanismo dell’apprendimento, per l’acquisizione della paura in situazioni pericolose: il bambino impara ad avere paura del fuoco, per esempio, perché si è scottato.<br />Dall’altra, l’apprendimento gioca un ruolo fondamentale anche nella genesi della paura per stimoli originariamente neutrali, cioè nelle fobie: secondo Watson è possibile creare risposte condizionate di paura a stimoli neutri, associandoli a stimoli spiacevoli. <br />Egli creò la paura per un topolino bianco in un bambino di 11 mesi (che in precedenza non temeva affatto tale animale), associando alla presenza dell’animale un improvviso forte rumore.<br />Successivamente il bambino aveva paura non solo del topolino bianco ma anche di una pelliccia bianca o di una maschera di Babbo Natale, tutti oggetti simili a quello di cui era stato condizionato ad avere paura, attraverso un meccanismo che è stato chiamato la generalizzazione.<br />La generalizzazione è alla base di gran parte delle emozioni provate dagli adulti; queste ultime, sono spesso scatenate da stimoli analoghi a quelli con cui essi erano venuti a contatto precedentemente e che avevano suscitato una risposta emotiva.<br />Watson (1924) identificò tre stati emotivi già presenti all’epoca neonatale:<br /> La paura (espressa con il pianto, con la distorsione dei lineamenti del viso, tremore, arresto del respiro e mani serrate a pugno), in seguito a stimoli come la caduta o un rumore improvviso;<br /> L’ira (espressa con grida, arresti del respiro, rossori, movimenti delle mani), quando il bambino viene tenuto forzatamente immobilizzato;<br /> L’amore (atteggiamento sereno, sorridente), se gli si accarezzano le labbra.<br />Sherman (1927) sostiene che nel neonato esiste una sola ed unica reazione emotiva che potrebbe essere definita come “eccitazione generale” e che le reazioni emotive più differenziate, che generalmente vengono attribuite al neonato, sono in realtà il frutto della proiezione da parte dell’adulto sul neonato di quelle che sarebbero state le sue emozioni.<br />Hebb D. O. (1958) sostiene che lo sviluppo emotivo non è più solo la conseguenza di associazioni arbitrarie ma tra i suoi fattori comprendono anche i processi cognitivi e percettivi. Il fatto che uno stimolo indifferente dal punto di vista emotivo in una certa fase dello sviluppo divenga significativo in una fase successiva, è dovuta al cambiamento del modo con il quale viene percepito, decifrato e classificato.<br />Bridges (1932) è stata la prima autrice a studiare la differenziazione dei diversi stati emotivi a partire dallo stato motivo indifferenziato iniziale: da una parte come effetto della maturazione delle strutture nervose e dall’altra come effetto dell’apprendimento.Tale ricerca ha messo in evidenza come quasi tutti gli schemi di comportamento emotivo ritrovati nell’adulto sono già presenti all’età di 2 anni. L’evoluzione successiva consiste in modificazioni sia del tipo oltre che del numero degli oggetti o situazioni capaci di suscitare emozioni.<br />L’autrice ha osservato che all’età di 2 anni sono presenti la maggior parte degli schemi comportamentali emotivi che costituiscono la gamma espressiva reperibile nei soggetti adulti.<br />Ha conseguentemente aggiunto che: nei bambini allevati in ambienti normalmente stimolanti lo sviluppo delle emozioni, rilevabili attraverso il comportamento, segue un ordine ben preciso dal quale si può dedurre che certe configurazioni stimolanti sono attive solo ad una certa fase dello sviluppo e di maturazione (fisiologica e cognitiva).<br />Non si deve però ritenere che l’espressione della ricchezza strutturale del comportamento emotivo sia indipendente dal comportamento o estranea alle catene di condizionamenti ambientali.<br />Gli aspetti cognitivi di un’emozione variano con l’età, l’esperienza e il contesto.<br />Nelle prime settimane di vita il bambino ha una consapevolezza limitata ai cambiamenti degli stimoli interni ed esterni, con una componente cognitiva modesta, se non inesistente.<br />A questo livello le espressioni emotive sono essenziali per la comunicazione dei bisogni immediati del bambino a chi si prende cura di lui e per stabilire il rapporto tra madre e bambino.<br />Nella primissima infanzia la tristezza è l’emozione “negativa” più frequentemente esperita. <br />Il grido di dolore essenziale per allarmare che si prende cura del bambino, forma la base per una prima esperienza dell’esistenza di una precisa relazione fra il proprio comportamento e le sue conseguenze. In concreto la manifestazione espressiva di dolore è seguita dall’assistenza e dal sollievo. Questa è una delle prime situazioni che contribuiscono allo sviluppo di una capacità crescente di discriminazione fra sé e l’altro da sé. Al cominciare del terzo mese del primo anno di vita, l’attenzione del bambino si dirige verso aspetti percettivi separati e distinguibili delle persone e degli oggetti che formano il suo ambiente. Compare il sorriso. A questa epoca il bambino piccolo comincia a sorridere in risposta a qualsiasi configurazione percettiva simile ad un volto e tendente ad orientarsi e a spingersi verso di essa. <br />Il sorriso differenzia un’esperienza positiva particolare, il rapporto con un altro essere umano, da altri eventi positivi e con esso si ha una prima rudimentale distinzione fra l’interazione con il mondo delle cose e quella con il mondo delle persone e soprattutto si ha la prova dell’esistere di una esperienza positiva che non è più funzione dello stato interno del bambino ma delle qualità del mondo esterno da lui percepite. <br />Il terzo livello di coscienza è caratterizzato dallo svilupparsi dei processi cognitivi. Il bambino comincia ad essere in grado di considerare se stesso come oggetto. Una volta che l’estraneo si rende ben discriminabile dagli individui familiari (intorno al primo anno), si ha il cessare della risposta indiscriminata del sorriso di fronte a qualsiasi volto umano e compare di fronte all’estraneo, la risposta della timidezza e della paura.<br />Possiamo concludere dicendo che uno stimolo dato può suscitare delle emozioni diverse in relazione al livello di sviluppo percettivo, cognitivo, motorio ed affettivo del bambino e che la stessa emozione può presentarsi di fronte a dati percettivi ed esperienze differenti, in relazione al grado di integrazione cognitiva della realtà, cioè la significato che assumono per il soggetto gli elementi che la contraddistinguono.<br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-59347485931116609022010-06-06T14:34:00.001+02:002010-06-06T14:36:35.546+02:00L’importanza delle cure offerte dalle figure importanti“Ci sono ormai tali prove da non lasciare alcun dubbio sul fatto che la deprivazione prolungata di cure materne subita da bambino può avere effetti gravi e prolungati sul suo carattere e in tal modo su tutta la sua vita futura” (Bowlby 1953).<br />Con il termine “deprivazione” si vuole indicare la sottrazione di qualcosa che prima c’era.<br />“Le affermazioni nelle quali è implicito che i bambini che subiscono una istituzionalizzazione o forme simili di privazione nelle prime fasi della vita sviluppano comunemente caratteri psicopatici o anaffettivi sono scorrette” (Bowlby 1956).<br />I primi lavori di Bowlby avevano dimostrato che i bambini che facevano esperienza della separazione o della deprivazione, provavano, non meno degli adulti, intense emozioni di dolore e tormento mentale: bramosia, infelicità, proteste rabbiose, disperazione, apatia e ritiro in se stessi. Egli aveva anche mostrato che gli effetti a lungo termine di queste separazioni potevano talvolta essere disastrosi e condurre alla delinquenza nei bambini o negli adolescenti e alla malattia mentale degli adulti. Nel separare un genitore dal proprio bambino veniva rotto un legame fondamentale che lega un essere umano ad un altro.<br />Attraverso i suoi numerosi articoli, Rutter (1981) porta alla definitiva valutazione empirica della deprivazione materna aggiornando l’opera di Bowlby. Il suo contributo è stato quello di raccogliere ulteriori prove e arrivare alla conclusione che la deprivazione materna possa agire come un fattore di “vulnerabilità” che innalza la soglia del bambino verso il disturbo invece di costituire un gente causale.<br />Gli elementi fondamentali che caratterizzano l’ambiente culturale sociogenetico sono le figure parentali, i coetanei della stessa specie, l’ambiente fisico circostante, le cui stimolazioni lasciano una traccia indelebile nel comportamento dell’individuo. Gli stimoli segnale caratteristici di queste figure vengono appresi ed assimilati in tenera età. In determinati periodi dello sviluppo ontogenetico essi hanno la possibilità di “stampare” (imprinting) le loro caratteristiche, che poi si manifesteranno in modo coattivo nel comportamento successivo dell’individuo.<br />Una caratteristica di tale comportamento è che la fissazione sull’oggetto può avvenire in un definito e breve periodo di tempo (periodo critico) della vita dell’animale, generalmente un’età piuttosto precoce.<br />Pur essendo i periodi critici specificatamente costanti, a volte si osservano delle differenze individuali relativamente grandi. Ci sono cioè degli individui più precoci ed altri più tardivi, per i quali ultimi il periodo sensibile critico può estendersi oltre la durata temporale caratteristica della specie.<br />La significatività delle ricerche sull’imprinting per la comprensione del comportamento sociale umano nasce dalle ricerche di Wolff, Spitz e Bowlby su bambini privati delle normali cure materne.<br />Spitz ha definito come “organizzatore” l’intervento materno nel primo sviluppo psichico infantile.<br />Il rapporto di Spitz sulla sindrome presentata da bambini ricoverati in befotrofio (in una condizione di vita in cui non esisteva alcuna persona che si occupasse individualmente del piccolo) è una testimonianza degli effetti negativi che la carenza totale delle cure materne ha sullo sviluppo dell’emotività, delle psicomotricità e del linguaggio e quindi del comportamento sociale dell’infante.<br />Questa sindrome, nota con il termine ospitalismo presenta come sintomi principali un abbassamento generale del livello di sviluppo. Tale discesa sia ha dopo il 4° mese (che inizia soprattutto a carico del controllo motorio e posturale).<br />L’autore ha notato come fino a 4 anni, la psicomotricità fosse estremamente compromessa al punto che a questa età esistevano delle difficoltà nella deambulazione, una incapacità di alimentarsi ed a vestirsi da soli ed una totale incapacità a controllare gli sfinteri. Il linguaggio era al massimo costituito da circa 12 parole risultando di 2 o 3 parole o addirittura assente nella metà dei casi.<br />Anche quando il bambino arriva all’età scolare, il numero dei vocaboli acquisiti è scarsissimo e la comprensione del vocabolo è rigida ed univoca. La parola a volte è riconosciuta soltanto in un particolare contesto verbale. Il discorso è egocentrico ed il modo di espressione è monotono.<br />Gli stessi comportamenti emotivi risultano bloccati nel loro sviluppo: l’espressività mimica è rudimentale, la percezione di sé è molto incerta per cui gli stessi bisogni fondamentali come la fame e la sete non sono distinti ed espressi. Di fronte allo specchio questi bambini rimangono indifferenti e non sono capaci di rapporti sociali (inerzia, passività, instabilità). Se a volte si determina un rapporto con una figura adulta, tale rapporto è estremamente possessivo ed esclusivistico.<br />Anche per un bambino che ha potuto godere per 5 o 6 mesi di un buon rapporto con la madre e poi, per vari ragioni, è privato di questo contatto, dopo 4 settimane dalla separazione: il bambino piagnucola, rifiuta il cibo, non dorme e a poco a poco rifiuta ogni contatto con le persone e con le cose: si isola. Questo quadro clinico è definito come depressione anaclitica ed è regredibile se il piccolo nello spazio di 5-6 mesi può ricongiungersi con la madre: già dopo qualche giorno la sintomatologia scompare. In superficie il comportamento può sembrare garbato ed accomodante ma in realtà i contatti sono anaffettivi.<br />Da qui, nelle situazioni di crescita in cui manca o è precaria la presenza materna o di un valido sostituto, si ha uno sviluppo della personalità di tipo patologico, in direzione antisociale.<br />Si può concludere che l’attaccamento filiale o materno è subordinato ad una primaria esperienza sociale che deve avere un certo grado di intensità.<br />Il nucleo essenziale è che il bambino nasce con una condizione istintiva per effettuare future esperienze sensoriali ed emotive che possono essergli offerte in modo ottimale dalle figure “importanti” che lo circondano e che gli siano vicino in modo amorevole, costante e stabile per un sufficiente periodo di tempo.<br />Senza questa fondamentale esperienza primaria svolta in un periodo critico che per l’uomo va dalla 6° settimana al 6° mese di vita, il senso sociale non riesce a sviluppare efficaci rapporti con l’esterno.<br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-27570266838298200782010-05-03T15:07:00.001+02:002010-05-03T15:09:30.200+02:00Debiti di gioco, usura e sovra indebitamentoDa sempre il gioco d’azzardo ha rappresentato un terreno fertile per il diffondersi del prestito a strozzo.<br />Si rischia denaro perché si crede, in maniera del tutto aleatoria, di ricevere un guadagno in denaro che gratifichi l’investimento. Il bisogno di vincere è la società stessa ad averlo imposto come valore. In questi ultimi tempi è aumentata la domanda delle occasioni da gioco che ha portato all’aumento dell’offerta e dei luoghi in cui giocare.<br />Il fenomeno dell’usura nasce all’interno di un quadro di sovra indebitamento non più gestibile dal singolo. È proprio il sovra indebitamento da gioco la precondizione necessaria alla caduta nelle mani dell’usuraio, anche se non è sufficiente essere degli indebitati a rischio perché questo accada. Il soggetto che si rivolge all’usuraio è quella persona che si trova ad essere incapace di gestire la crisi e si rivolge all’usuraio considerando questa come la soluzione più semplice al problema. Gli usurai sono persone che stanno nei luoghi di sale scommesse, nei bar, negli ippodromi e aspettano solo che la persona disperata, perché ha perso tutti i suoi soldi al gioco in quella giornata, gli venga a chiedere aiuto, un aiuto che purtroppo costerà caro a quella persona. Gli usurai sanno quando è il momento di avvicinarsi per fare la loro proposta in denaro. Così il giocatore lo ringrazierà e lo vedrà come il suo salvatore, promettendo che presto restituirà tutto il denaro prestato. Ma poi chi è malato di gioco non riesce a fermarsi e perde, perde continuando ad attingere al denaro del suo “amico” usuraio. Come possiamo immaginare i tassi di interesse dei soldi prestati diventeranno sempre maggiori e il giocatore patologico si ritroverà in una situazione ancora più grave e difficile da gestire da solo.<br />È ormai accertato e lo confermano sia i dati provenienti dall’Istat, sia quelli di altri istituti di ricerca, che il sovra indebitamento è un fenomeno diffuso e purtroppo mostra una curva crescente. Molte sono le famiglie che anche a causa di una costante perdita di potere di acquisto dei propri redditi, non dispongono di risparmi o di una rete familiare in grado di aiutarle. Purtroppo più cresce la cultura del debito, più la società nel suo insieme si trova esposta al rischio di sovra indebitamento.<br />È utile dire che se da una parte è diritto di ogni individuo aspirare al benessere economico e sociale, dall’altra, la mancanza di un senso di responsabilità individuale nel contrarre una serie di debiti è una forma “patologica” che può essere prevenuta attraverso campagne di sensibilizzazione e curata la dove il problema sussiste (attraverso gli sportelli di aiuto). <br />Si può intervenire attraverso campagne di sensibilizzazione su fasce della popolazione adolescenziale in modo da prevenire il fenomeno del sovra indebitamento. Esistono associazioni che si occupano di questi problemi e collaborano insieme per spingere la popolazione a chiedere aiuto, un aiuto risolutivo, prima che si cada in mano di persone sbagliata o prima che ci si faccia prendere dalla malattia del gioco. <br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-84879210563497056282010-04-03T11:49:00.002+02:002010-04-03T11:51:33.529+02:00L'integrazione lavorativa"Disabile e Lavoro" è un quesito che sempre più frequentemente viene posto allo Sportello Disabili. Le opportunità lavorative sono poche e le informazioni per come accedervi non sono facili da trovare. Nonostante le agevolazioni fiscali e contributive a favore dei datori di lavoro, il numero degli occupati rimane sempre basso.<br />Varie sono le cause: l'ambito territoriale, le caratteristiche ambientali e culturali, la dimensione e la dispersione dell'utenza disabile, la disponibilità e la tipologia delle aziende obbligate all'assunzione. La prima legge sull'inserimento lavorativo delle persone con disabilità (L. 482 del 2 aprile 1968) prevedeva già un sistema impositivo nei confronti delle aziende, obbligandole ad assumere persone con invalidità superiore al 45%. La nuova legge ha mantenuto l'obbligo di assunzione, introducendo però una modalità di tipo consensuale e negoziale tra tutti gli attori coinvolti (disabili, aziende e servizi). L'approccio della L. 68/99 favorisce la conoscenza dei bisogni specifici della persona, mettendone in evidenza le capacità e le potenzialità. L'analisi valutativa viene quindi a configurarsi come un processo attivo, in cui i vari soggetti preposti a realizzare tale funzione sono tenuti ad esprimere un'adeguata valutazione della persona con disabilità, per metterne in luce le capacità lavorative e per individuare quali possono essere gli interventi più adatti a favorire il suo inserimento lavorativo.<br />Inserimento mirato significa "inserire la persona giusta, al posto giusto". Per far ciò è necessario conoscere la persona nella sua totalità, conoscere le sue attitudini, le sue capacità, le sue conoscenze e le sue potenzialità. E' necessario conoscere le offerte: conoscere la mansione in relazione al luogo di lavoro, agli strumenti lavorativi a disposizione, al vissuto psicologico/relazionale di chi deve essere inserito. Significa rendere accessibili gli ambienti di lavoro, sia sotto l'aspetto logistico (barriere architettoniche), sia sotto l'aspetto psico - relazionale delle persone con disabilità. Ogni persona è diversa dall'altra e le varie invalidità civili sono dovute a molteplici fattori: disabilità motoria o psichica, disabilità sensoriale, patologia psichiatrica, patologia tumorale o altre malattie rare, gravi o invalidanti.<br />Molto spesso le famiglie delle persone con disabilità si rivolgono agli operatori dei servizi per chiedere se esiste un futuro lavorativo per i loro figli, se anche loro possono avere la possibilità di svolgere un’attività lavorativa ma molto spesso o quasi sempre si sentono dire che il territorio non offre molte opportunità, che non ci sono soldi per finanziare progetti di inserimento lavorativo, insomma che è meglio rinunciare a questo loro desiderio, bisogno. Le famiglie si sentono ancora più sole.<br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-44056303893828226402010-03-08T13:53:00.002+01:002010-03-08T13:55:28.456+01:00Il colloquio clinicoIl colloquio clinico<br /><br />Dal vocabolario apprendiamo che il colloquio consiste in una conversazione, un momento fissato tra due o più persone per discutere, scambiare idee: comunicare.<br />Etimologicamente comunicare significa “mettere in comune”, stabilire un rapporto con qualcosa che non ci appartiene, quindi “essere con” pur mantenendo una distanza.<br />La comunicabilità si addice alle situazioni di adattamento reciproco, in cui ogni partecipante alla comunicazione impara gradualmente ad entrare nel sistema di riferimento dell’altro non abbandonando completamente il proprio (Jacques, 1992).<br />Il fatto che un colloquio sia normalmente fissato con anticipo, che esiste un accordo sullo scopo, il tempo, il luogo e le condizioni particolari di attuazione (ad esempio il costo della seduta), introduce delle variabili che caratterizzano fortemente il contesto della comunicazione.<br />Il contesto all’interno del quale si svolge il colloquio fa da contenitore a questo incontro e dà significato e senso agli scambi.<br />Il colloquio clinico, come forma di interazione diadica, si configura come un particolare contesto in cui diversi e specifici sono i ruoli svolti dall’intervistatore e dal soggetto.<br />L’intervistatore dispone dunque delle espressioni e del comportamento del soggetto, unitamente al contesto in cui esse vengono poste in atto.<br />Esistono infatti delle convenzioni tra gli interlocutori, in primo luogo di origine socioculturale, che collocandoli su posizioni diverse, agiscono sul piano della relazione. <br />La distribuzione dei turni di parola, per esempio, dipende da convenzioni esterne all’interazione in corso, dall’influsso di regole sullo svolgimento della conversazione, sulle modalità di espressione, sulla gestione dello spazio interlocutorio.<br />Il colloquio si fonda più che su singoli episodi comunicativi, sul processo di interazione tra gli interlocutori, il quale non può prescindere dagli atteggiamenti dei protagonisti, dalle loro credenze, finalità e motivazioni individuali, che rendono allo stesso tempo irripetibile il suo svolgimento.<br />Nello svolgimento di un colloquio, lo psicologo è spinto da motivazioni personali, umane, legate ai propri interessi ed alle curiosità verso gli altri, le quali si sono costituite attraverso una serie di scelte che egli ha effettuato nel tempo e che gli forniscono una sorta di sintesi operativa in quel momento.<br />Il colloquio clinico è una situazione in cui la comunicazione avviene tra due persone che si incontrano più o meno volontariamente, sulla base di una rapporto esperto-cliente.<br />Sullivan afferma che non è possibile conoscere che cosa turba la vita di una persona, il suo problema, senza avere un’idea abbastanza chiara della persona e di quelli che la circondano, e cioè delle modalità tipiche di relazione.<br />Uno psicologo che tenga conto della dimensione temporale, non fa riferimento al solo contesto di osservazione (spazio interattivo del colloquio) ma anche al patrimonio interazionale che le persone hanno acquisito negli anni, dando rilievo agli elementi soggettivi (ricordi, aspettative, intenzioni), del tempo vissuto sia individuale che collettivo.<br />La fisionomia del colloquio è tratteggiata dal metodo di conduzione dell’incontro e dalla unità di osservazione e di analisi.<br />L’utilizzazione del colloquio a scopo diagnostico o prognostico si basa sul presupposto che, i tratti, le disposizioni, rilevate in una persona in occasione del colloquio, non sono caratteristiche incidentali, casuali, limitate nel tempo e nello spazio alla situazione in esame ma possono essere trasferite ad ambiti più vasti e rilevanti del comportamento.<br />Tuttavia questa sostanziale identità, questa complessiva stabilità, non deve far dimenticare le molteplici potenzialità di una persona. Infatti, una relativa unità, continuità e costanza che è possibile riscontrare nella condotta di ognuno, non deve far credere che la persona sia un sistema “monovalente”.<br />Essa è piuttosto un sistema “multivalente”, cioè dalle potenzialità molteplici, in quanto si è formata attraverso l’apprendimento di numerosi “ruoli” psicosociali.<br />Nei rapporti interpersonali della vita quotidiana, la tendenza a generalizzare, partendo da un aspetto limitato del comportamento, porta ad una semplificazione, ad un appiattimento deformante nella “percezione” della personalità. <br />Bisogna evitare che si verifichi anche nel colloquio clinico.<br />Consapevole di questa facile tendenza alla generalizzazione, lo psicologo dovrà sempre formulare le proprie ipotesi con riserva, proponendosi di verificare, mediante l’assunzione di ulteriori informazioni, la prima impressione riportata.<br />Deve assumere un atteggiamento di ricerca prudente.<br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-62399392214371126692010-01-29T10:33:00.002+01:002010-01-29T10:35:32.282+01:00La coppia genitorialeI bambini devono avere accesso ad entrambe i genitori.<br />Molto spesso sono le donne ad occuparsi maggiormente dei figli. Teniamo conto certamente del periodo della gravidanza e di quanto una donna si senta già mamma e poi il periodo post parto, il momento dell’allattamento, il rimanere a casa con il neonato per mesi prima di tornare a lavoro. Sono tutti elementi che rendono il rapporto tra madre e figlio molto stretto e intenso. Da qui può sorgere la difficoltà di un papà di entrare a far parte di questo rapporto.<br />Se i padri vengono esclusi dal rapporto o si escludono loro stessi, le conseguenze possono essere:<br /> La madre si sente abbandonata ed il padre la giudica incompetente nel rapporto con il figlio.<br /> Il padre si sente sminuito e poco importante, tutto ciò che riguarda i figli è compito della madre.<br /> I figli iniziano ad occuparsi dei bisogni della madre (diventano “madri” o “compagni della madre”) e tutto questo porta ad una maggiore distanza nella coppia e il bambino a prendere un ruolo che non gli compete ed a caricarsi di responsabilità non sue.<br /><br />I figli hanno bisogno di entrambe i genitori. Essi devono agire “insieme” nel rapporto con loro e soprattutto non uno contro l’altro. Questo presuppone che essi si rispettino nel loro modo di essere genitori. L’effettivo rispetto si evidenzia quando un genitore accoglie con benevolenza il comportamento del partner nei confronti dei figli e non interviene per correggerlo davanti al figlio.<br />Un’altra cosa molto importante è che all’interno della famiglia, la coppia genitoriale deve ritagliarsi uno spazio per la coppia marito e moglie. Essi devono creare e proteggere spazi e tempi da sfruttare solo per se stessi.<br />Alcune donne si rassegnano, si sottomettono al proprio destino nel senso che si assumo il carico della gestione dei figli, della casa, del lavoro e portano per anni il peso del “carico” fino ad esplodere. Sono donne che difficilmente sanno chiedere aiuto, sono donne “forti” ma non abbastanza da portare troppo a lungo un peso del genere sulle proprie spalle.<br />Dall’altra i mariti-padri, si sentono sempre più estranei a casa, hanno sempre meno da dire e la vita sessuale diventa sempre meno frequente: si crea uno sbilanciamento di potere e la coppia entra in una crisi coniugale.<br />Quando vengono in terapia è perché arrivano nel corso di una “crisi”.<br />In genere la donna riporta sentimenti di rabbia per non sentirsi compresa dal compagno come donna e non sentirsi aiutata abbastanza come mamma. Dall’altra anche l’uomo non si sente più compreso da lei e sente che è stato tagliato fuori da quel rapporto così intimo tra madre e figlio, quel figlio che sembra aver preso il suo posto, quello di “compagno della madre”.<br />Lei: “per tutti questi anni ho fatto tanto per la famiglia ma tu non ti sei mai accorto di nulla, ora sono stanca, non provo più sentimenti di amore per te”.<br />Lui: “ma io ho sempre cercato di aiutarti e starti vicino ma tu non me lo hai permesso; io lavoravo e tornavo tardi per portare i soldi a casa, per la nostra famiglia; se non ci pensavo io che ci pensava?”.<br />La terapia di coppia aiuta i due a riscoprirsi di nuovo come partner, ad ascoltarsi l’uno con l’altro forse come mai non avevano fatto prima e cioè nell’essere più schietti ed espliciti nei propri bisogni. A ritrovare o a trovare quella complicità non solo come coppia di partner ma anche come coppia genitoriale, senza più quei giochi di potere che “servivano” a ferire l’altro/a.<br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-40140062553740598562009-11-27T17:09:00.002+01:002009-11-27T17:10:07.598+01:00Il bambino che fa il bulloSi parla di bullismo quando uno o più individui si divertono utilizzando il proprio potere per molestare ripetutamente e gravemente una o più persone. Il bullismo comprende vari comportamenti: il bullismo fisico, quello verbale e il bullismo relazionale.<br />Il bambino incline al bullismo presenta gravi problemi di impulsività e di inadeguata espressione dell’aggressività, ha difficoltà di sentirsi di far parte della comunità scolastica. Il bullo individua un altro bambino più “debole” e lo fa diventare il suo bersaglio da colpire ogni volta lui decide di farlo. Si sente superiore e rifiuta l’altro perchè si giudica migliore di lui e quindi in diritto di tormentarlo. Nel momento in cui un comportamento bullistico non viene riconosciuto e affrontato, rimane la possibilità che da adulto possa diventare un violento; non sarà da meno un bambino che è stato vittima di un atto di bullismo. Chi subisce ripetuti atti di bullismo tende a sviluppare sintomi depressivi, bassi livelli di autostima, sentimenti di paura e stati ansiosi. Essi provano vergogna e imbarazzo nel parlare del loro problema ma quanto più si isolano tanto più cadono nel loro stato di angoscia. I sintomi di ansia che possono manifestare sono l’insonnia, gli incubi, i tic, l’eccesso di nervosismo e il rifiuto di andare a scuola. Inoltre possono manifestare mancanza di appetito, problemi gastrointestinali, dermatiti etc. Dall’altra, i bambini che si comportano da bulli, nonostante l’apparente fiducia in se stessi, hanno un livello di autostima basso e sebbene sembra che si piacciano, è dimostrato che solo le situazioni da cui possono ricavare un senso di superiorità o di controllo sugli altri, riescono a farli stare meglio, a placare la loro inquietudine. Nella maggior parte dei casi di bullismo, ci si concentra sul bambino che ha subito l’aggressione ma altrettanto importante è dedicarsi al “bullo” attraverso un lavoro di collaborazione tra la famiglia, la scuola e gli operatori del sociale (psicologi, assistenti sociali…), perché spesso dietro un atto di bullismo, ci sono messaggi, tra cui quello di richiesta di attenzione. I genitori vanno aiutati ad affrontare il problema. Spesso quando scoprono che un figlio fa il bullo, si preoccupano perché temono che non impari a stare bene con gli altri e vivono l’ansia di essere convocati a scuola in seguito ad un nuovo episodio di abuso. Non capiscono perché i figli si comportino male e si sentono in difficoltà per il loro insuccesso nel limitare il comportamento aggressivo dei figli. Questi genitori vanno aiutati a chiedere aiuto a persone specializzate sia per capire cosa c’è dietro il comportamento da bullo sia per imparare quali sono le strategie migliori da adottare per fronteggiare la situazione. Ci sono poi genitori che sottovalutano il problema, arrivando anche a giustificare il comportamento dei loro figli e questo atteggiamento non fa che peggiorare tutta la situazione a casa e a scuola. Dall’altra, come si deve comportare invece un genitore di un bambino vittima di bullismo?. Anche in questo caso i genitori vanno guidati, perché un atteggiamento iperprotettivo potrebbe essere nocivo e portare il bambino a sentirsi insicuro e debole ma anche un atteggiamento troppo duro portarlo a non sentirsi compreso e a sottovalutare la sua richiesta di aiuto.<br />Le situazioni vanno valutate caso per caso, con particolare attenzione al bambino che sia il bullo che sia la vittima, in relazione al contesto casa, scuola e al contesto socio-culturale. <br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-16175776865029467582009-09-26T18:18:00.001+02:002009-09-26T18:20:12.530+02:00“Litighiamo per ogni sciocchezza e poi da una lite arriviamo a farci la guerra”.Molto spesso sento dire dalle coppie in terapia che non si fa altro che litigare, litigare, litigare, arrivando ad esplosioni di rabbia enorme da entrambe le parti; “non siamo mai arrivati a tanto, non mi riconosco più”.<br />Il più delle volte non è tanto quello che si dice a ferire ma il “come” vengono dette le cose. <br />Faccio un esempio. L’uomo che durante un litigio si sente sfidato dalla compagna, non fa altro che dimostrare di aver ragione e con questo finisce di essere affettuoso, diventando ostile. È ciò che porta a ferire la compagna. <br />Quando invece è la donna a sentirsi sfidata, ella adotta un atteggiamento verbale diffidente e improntato al rifiuto. È ciò che porta a ferire il compagno.<br />Quasi sempre non ci si accorge, perché troppo presi a farsi la guerra, di quanto tale comportamento porti a ferire sia l’uno che l’altro. Utile in terapia è registrare le sedute e poi far riascoltare alla coppia la cassetta. Riascoltandosi mostrano sorpresa nel sentire certe espressioni e toni e modi di parlare all’altro/a.<br />Durante un litigio l’uomo usa le armi del rimprovero, del giudizio e della critica, ha la tendenza ad urlare (e questo porta ad intimidire la compagna) e a dare libero sfogo alla rabbia. In questo modo la partner, intimidita, si ritira e si chiude in se stessa arrivando a perdere la fiducia nel compagno che a sua volta si ammutolisce e perde via via la capacità di provare interesse e amore per lei. La conclusione è che forse è meglio non parlare di certi argomenti altrimenti si arriva di nuovo alla lite. Apparentemente le cose per un po’ sembrano andare bene ma è solo una illusione, perché non si fa altro che tenersi tutto dentro e aspettare il pretesto per “rinfacciare”.<br />Di solito per dimenticare i sentimenti che fanno male e di cui è meglio non parlare, l’uomo si getta sul lavoro, sul cibo o cade in altre forme di dipendenza (ad esempio la dipendenza da gioco d’azzardo).<br />Dall’altra la donna si stampa un sorriso sul viso, mostrando a se stessa e agli altri la soddisfazione di stare bene. Con il tempo però, il suo risentimento cresce, continua a dare al compagno ma senza ricevere nulla di cui ha bisogno. Questo succede perché lei ha difficoltà a chiedere per se stessa, non riconoscendo i suoi bisogni!. Allora prenderà su di sé la colpa e la responsabilità di qualunque cosa stia turbando il partner, però senza andare mai a fondo al motivo dello stare male. Il loro principale obiettivo è quello di essere ammirate da tutti “sei veramente brava, se non fosse per te che pensi a tutto!”; ma così facendo rinunciano alla propria identità (le codipendenti). <br /><br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-90352908744548340412009-08-30T10:49:00.002+02:002009-08-30T10:50:38.057+02:00“Non mi sento capita”…. “Non mi sento accettato”.In una coppia gli uomini e le donne hanno bisogni emotivi diversi, è un bagaglio che ognuno porta con sè e, nel momento della scelta del proprio partner, lo/la sceglie in base alla “soddisfazione” di quei bisogni. Spesso però, ognuno pensa che l’altro abbia i suoi stessi desideri e i suoi stessi bisogni e questo da luogo a insoddisfazione e risentimenti. Faccio un esempio, a volte noi donne facciamo un sacco di domande al nostro partner e in questo modo esprimiamo interesse per lui e preoccupazione, pensiamo che facendolo parlare, dopo si sentirà meglio o che riusciremo a risolvere il suo problema (le solite “crocerossine”). Dall’altra il nostro partner non sente lo stesso bisogno della donna, perché il suo di bisogno è quello di essere lasciato in pace per un po’ di tempo, lui sente la necessità di pensare tra se e se e di conseguenza percepisce come invadente le tante domande che le fa la compagna; inoltre sente che la sua compagna lo ritiene incapace di prendere la decisione giusta e non si sente accettato. L’uomo ha bisogno di apprezzamento e incoraggiamento. Ancora un altro esempio che riguarda invece quanto le donne non si sentano capite dal proprio compagno. Quando una donna è turbata, il suo compagno pensa di aiutarla facendo osservazioni che minimizzano l’importanza dei suoi problemi e così la donna si sente dire “dai che non è poi così grave” oppure la ignora, pensando che lei ha bisogno di strare da sola. La donna invece vuole, desidera, essere “ascoltata” dal proprio partner senza essere giudicata, in questo modo si sente “capita” e sostenuta. Le donne hanno bisogno di essere rassicurate e comprese.<br />Quanto spesso in terapia sento dire da un uomo “lei cerca di correggere il mio comportamento e mi tratta come se fossi un bambino dicendomi che cosa devo e non devo fare”; e da una donna “lui non mi ascolta, minimizza l’importanza dei miei sentimenti, non mi sento compresa, mi sento sola”.<br />Questi momenti in terapia sono molto importanti, perché danno la possibilità ad ognuno di ascoltarsi con attenzione per la prima volta e di comprendere che, quello che sente uno o che desidera, non è identico a quello dell’altro; i bisogni tra un uomo e una donna sono diversi!. <br />Da quel momento in poi, sicuramente ci saranno “ricadute” nei vecchi comportamenti ma saranno sempre di meno, perché ora c’è la consapevolezza<br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-88397959982916386982009-07-26T16:17:00.001+02:002009-07-26T16:19:14.541+02:00Perché le differenze tra un uomo e una donna portano alla lite?Esistono differenze tra un uomo e una donna, sono differenze che non vanno sottovalutate perché, se le si ignorano o non le si conoscono, spesso portano ad incomprensioni e malesseri nella coppia. Gli uomini e le donne hanno diversi modi di pensare, di parlare, di amare e di agire.<br />Gli uomini danno importanza soprattutto al potere, alla competenza, all’efficienza e ai risultati. Si definiscono in base alla loro capacità di raggiungere risultati. Raggiungere degli obiettivi è molto importante per un uomo, è un modo di dimostrare la propria capacità e quindi di stare bene con se stesso. Quando una donna dice ad un uomo “cosa fare”, offrendogli un consiglio, lui reagisce male perché ai suoi occhi significa che non sa fare quella cosa o che non è in grado di farlo da solo.<br />Le donne invece danno importanza all’amore, ai sentimenti, alla bellezza e ai rapporti interpersonali. La comunicazione per loro è molto importante, come è importante per loro “essere ascoltate”. Le donne sono molto intuitive, sono ottime ascoltatrici e tendono spesso ad anticipare i bisogni degli altri. Per una donna non c’è nulla di offensivo nell’offrire un aiuto e nell’averne bisogno mentre per un uomo può significare segno di debolezza. Infatti spesso succede che, ad offrire assistenza ad un uomo, si rischia di farlo sentire incompetente, debole o addirittura menomato. Non di rado, durante le mie terapie di coppia, sento dire ad una donna che il loro tentativo è quello di voler “cambiare” il loro partner e questa è una missione importante per loro “ci riuscirò prima o poi a farlo diventare come desidero”; “deve cambiare, così non va bene”. Pensate per un uomo quanto tutto ciò sia squalificante ed offensivo!.<br />Le differenze tra un uomo e una donna derivano anche e soprattutto dal “parlare due lingue diverse” che spesso portano a fraintendimenti.<br />Le donne hanno un modo diverso di esprimere i sentimenti: spesso sento dire da una donna “non mi sento ascoltata né capita da lui” e dall’altra l’uomo che risponde “ma io proprio non sono d’accordo con quello che dici”, perché lui è fermamente convinto di averla ascoltata sempre.<br />Oppure, quando l’uomo sta in silenzio, lei fraintende e pensa che non la ma più. Sono molte le ragioni per cui l’uomo tende a rinchiudersi in se stesso: magari ha bisogno di risolvere un problema e di trovare una soluzione pratica. Questo suo “chiudersi in se steso” viene visto dalla donna come un “vedi non vuole condividere con me quello che lo preoccupa e io non so come aiutarlo se lui non me lo dice”. Spesso noi donne sbagliamo il momento, perché è fondamentale aspettare un tempo e chiedere nel momento adatto, accettando anche periodi di chiusura da parte di lui. Quando invece una donna vuole a tutti i costi sapere che cosa turba un uomo per voler risolvere subito il problema, “io le chiamo le crocerossine ”, appare invadente ed è proprio quello il modo di far chiudere ancor di più l’altro. Può succedere che si sente soffocare quando lei cerca di confortarlo (che è una cosa che all’uomo non piace) o di aiutarlo a risolvere una difficoltà. Lui può avere la sensazione che lei non lo ritenga in grado di gestire i suoi problemi, che non lo ritenga abbastanza uomo. Può sentirsi controllato, trattato come un bambino o avere l’impressione che lei lo voglia cambiare. Quello che in genere io consiglio alle coppie che manifestano questo problema, è quello di “lasciarsi” periodicamente degli “spazi reciproci”, senza aver paura che questi spazi possano invece far allontanare e di aspettare, nel caso dell’uomo che si chiude in se stesso, che sia lui a chiedere aiuto e non lei ad anticiparlo. <br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-54665260416232166492009-06-15T10:34:00.002+02:002009-06-16T11:06:32.588+02:00Quando un figlio sta male……….L’invio.<br />I genitori possono essere inviati da latri professionisti o presentarsi di propria iniziativa. È fondamentale rispondere prontamente all’invio, dal momento che il funzionamento relazionale di genitori e figli che vivono in condizione di costante tensione può deteriorarsi rapidamente. Inoltre una risposta fornita con il giusto tempismo permette al terapeuta di effettuare una prima valutazione dei rischi che il bambino corre nell’immediato. Il primo contatto con il terapeuta avviene telefonicamente, perché è questo il momento in cui una persona comincia ad interessarsi alle preoccupazioni per se stesso e per il bambino.<br />La prima seduta.<br />In questa fase è fondamentale per il terapeuta capire quali sono i veri motivi della richiesta di aiuto.<br />a. Problemi del bambino: ci si riferisce a tutte le problematiche direttamente attribuibili al bambino (difficoltà di regolazione nell’alimentazione, difficoltà comportamentali, gli scoppi di rabbia, una eccessiva dipendenza etc…).<br />b. Problemi del genitore: è frequente che una famiglia venga segnalata quando di ritiene che le problematiche legate alla salute del genitore e al suo stato mentale rappresentino un rischio potenziale per lo sviluppo del bambino. Un esempio è quando il genitore è troppo assorbito dai propri stati affettivi e non è in grado di riconoscere i bisogni del figlio né di rispondere ad essi. A questo comportamento del genitore, il bambino potrebbe rispondere imparando ad adattarsi alla mancanza di disponibilità del genitore ritirandosi dalla relazione e facendo ricorso all’autostimolazione e all’autoconsolazione.<br />c. Problemi della relazione con il bambino: ci sono casi in cui la relazione con il bambino si presenta come problematica sin dall’inizio. Per esempio una madre potrebbe riferire di non aver stabilito un legame con il proprio figlio. Sono genitori che non sono in grado di creare nella propria mente lo spazio per preoccuparsi del figlio, spesso non riescono ad adattarsi ai suoi bisogni precoci e a farsi coinvolgere in una relazione connotata da un investimento emotivo molto forte. È molto importante che il bambino senta che qualcuno si occupa dei suoi stati fisici e mentali, comunicandogli la sensazione di essere al sicuro.<br />d. Problemi della coppia genitoriale: la relazione di coppia può rappresentare la ragione iniziale per la consultazione, per esempio quando sia in corso una separazione. In altri casi dietro una qualche preoccupazione per il figlio, si nasconde una situazione problematica di coppia.<br /><br />La fase intermedia della terapia.<br />La chiave del cambiamento nella relazione genitori-bambino è racchiusa nella fase intermedia della terapia, quando tutti i pazienti sono sempre più coinvolti. Questa fase può aver inizio anche se non è ancora completamente consolidata l’alleanza terapeutica. Anche il bambino a sua volta assorbe le emozioni che circolano nella stanza di terapia, costruisce la sua relazione con il terapeuta e nutre un’aspettativa sull’aiuto che può riceverne.<br />Una volta che il legame terapeutico si è stabilizzato, emergono con maggiore chiarezza gli “stili relazionali” di bambini e genitori. Compito del terapeuta è di “restituire” ai pazienti le “interazioni” così come le osserva, come se fosse possibile vederle al rallentatore per esaminare i dettagli impercettibili ad un primo esame.<br />La conclusione della terapia.<br />La decisione di porre fine al trattamento attiva nella relazione tra terapeuta, genitori e bambino uno stadio caratterizzato molto spesso dall’improvvisa comparsa di sentimenti regressivi ed emozioni primitive, ad esempio l’ansia da separazione. Uno dei compiti evolutivi del bambino è quello di imparare a gestire le continue separazioni che affronta ogni giorno: deve accettare che i genitori lo possono lasciare anche da solo per un po’ di ore, imparare che arriva il momento di andare a dormire o sapere aspettare se non riceve una risposta immediata alle sue richieste. Durante la terapia i genitori e il bambino condividono le separazioni rappresentate dalla fine di ogni seduta seguite dal ricongiungimento nella seduta successiva. L fase conclusiva permette di assimilare queste esperienze e prepara ad un ultimo saluto, a cui non seguirà un ritorno per la seduta successiva.<br />Questa fase fornisce al bambino e al genitore la preziosa opportunità i percepire, comprendere e digerire i sentimenti di separazione e di perdita.<br /><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size: 100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size: 100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a></span></em></strong>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-29075278992555087062009-05-14T18:01:00.001+02:002009-05-14T18:03:18.579+02:00L'autonomiaL’autonomia di una persona non va considerata unicamente all’interno dei confini della forza dell’Io e delle risorse intrapsichiche. Il raggiungimento dell’autonomia è strettamente legato alla “lealtà” verso la famiglia di origine. “Gli impegni di lealtà” dei singoli membri della famiglia sono indicatori del bilancio della giustizia familiare: costituiscono una determinante invisibile, intrinseca di catene di azioni-reazioni tra i membri della famiglia attraverso le generazioni.<br />Può succedere che il figlio per esempio, può rimanere indebitato verso i genitori che hanno fatto tanto per lui, e ripagarli attraverso forme patologiche di lealtà come il non riuscire a crescere emotivamente o a separarsi. In questo contesto qualsiasi psicopatologia e insuccesso di maturazione equivale ad un pagamento per la gratitudine e la lealtà dovute ai genitori (figli come oggetti sacrificali).<br />Gli adulti che non hanno adeguatamente elaborato la loro separazione emotiva e il senso di colpa, posso rimanere inconsciamente troppo impegnati e leali verso le famiglie di origine. I loro figli possono allora essere usati come oggetto sostitutivo di gratificazione per la dipendenza non esaudita dei genitori. I genitori possono anche cercare di ripagare il loro debito verso i propri genitori con un atteggiamento oblativo verso i figli, atteggiandosi a martiri e generando sensi di colpa. Che succede allora? Quando ai bambini non è permesso di essere tali, di perseguire i propri interessi e bisogni, si sentono iper-responsabili e cercano di svolgere funzioni genitoriali: il figlio genitorializzato.<br /><br />L’individuo è membro di un sistema relazionale attraverso il suo impegno di lealtà. È impegnato verso la famiglia attraverso obblighi sia manifesti sia invisibili. È una tendenza umana attendersi una giusta ricompensa ai propri contributi “dopo tutto quello che ho fatto per te, questo è il ringraziamento, andartene, fregandotene della nostra famiglia” e dovere una giusta ricompensa per i benefici ricevuti dagli altri.<br />L’unione tra due persone spesso provoca un confronto tra due sistemi di lealtà verso la famiglia nucleare. L’obbligo “irrisolto” verso la famiglia di origine lo chiamiamo “lealtà originale”. Quando un uomo e una donna decidono di stare insieme, la loro lealtà verso la futura unità familiare nucleare deve raggiungere una tale importanza, da permettere loro di “superare” le lealtà originali”.<br />Molto spesso nel mio lavoro con le coppie, ho potuto constatare che quasi sempre, quando ci sono conflitti coniugali, un sintomo scatenante (es. una dipendenza patologica) di uno dei coniugi o di un figlio, dietro al malessere che la famiglia o un membro porta in terapia, si nascondono “lealtà originali” congelate, ossia conflitti di lealtà che non permettono all’intero sistema familiare, di raggiungere un equilibrio sano. La formazione di un capro espiatorio in una famiglia può servire ad evitare le lealtà familiari irrisolte. Allora se il “tempo” della famiglia è quello giusto, il terapeuta deve chiamare tutti i membri della famiglia nucleare per “scongelare” obblighi irrisolti.<br /><br /><span style="color: #ff3300;"><em><strong><br/><a <br />href="http://www.psicolife.com"><span style="font-size: 1.2em;color: <br />#33cc33;">www.psicolife.com</span></a><span style="font-size: 1.2em;"> <br /> <a href="http://www.psicolife.com">Psicologia e Ipnosi Terapia <br />a Firenze e Roma</a> </span></strong></em></span><br/>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-61412021798846519232009-04-02T17:07:00.001+02:002009-04-02T17:08:53.614+02:00La famiglia con un figlio adolescenteL’adolescenza è un evento critico di crescita e come tale mette alla prova la capacità di adattamento e flessibilità dell’intera organizzazione e struttura familiare. Si tratta di una sfida evolutiva che interessa sia l’adolescente che il genitore.<br />Un compito di sviluppo di tale fase del ciclo vitale, è rappresentato dalla separazione dalle figure parentali con il parallelo raggiungimento dell’indipendenza.<br />Al giorno d’oggi non è sempre facile compiere questo passo, perché è un passo che richiede molti sforzi a livello emotivo da parte sia dei genitori che dell’adolescente.<br />Il percorso di transizione si realizza attraverso il processo di differenziazione reciproca tra le generazioni: differenziarsi vuole dire rispondere di sé in termini di pensieri, emozioni ed azioni a partire dalla comune appartenenza alla storia familiare. Ciò che nasce è la capacità di distinguere tra sé e l’altro da sé.<br />L’adolescente ha bisogno di uscire da casa per confrontarsi con il mondo esterno, cercando attivamente un gruppo di riferimento che costituisce per lui un vero e proprio supporto identitario. Ma nello stesso tempo deve poter ritornare presso la sua famiglia d’origine, per introdurre le conquiste esterne e saggiare la capacità di accettazione e di integrazione del sistema familiare. Crescere vuole dire essere portatori di una differenza senza negare la matrice di appartenenza.<br />Per i genitori si tratta di passare da una fase di generatività parentale ad una di generatività sociale. Il crescere dei figli rinvia al tema del distacco-perdita con il quale i genitori devono confrontasi. Ciò necessita di un’adeguata elaborazione del dolore connesso alla separazione dai figli e consente alla coppia genitoriale di reinvestire sulla coppia coniugale e di prepararsi al momento dell’uscita dei figli da casa. Inoltre alla base di una comunicazione adeguata tra genitori e figli adolescenti ci deve essere la capacità genitoriale di accettare gradualmente le opinioni dei ragazzi e il loro punto di vista durante i dialoghi e le discussioni in famiglia e di sostenere i loro sforzi verso l’autonomia.<br /><span style="color: #ff3300;"><em><strong><br/><a <br />href="http://www.psicolife.com"><span style="font-size: 1.2em;color: <br />#33cc33;">www.psicolife.com</span></a><span style="font-size: 1.2em;"> <br /> <a href="http://www.psicolife.com">Psicologia e Ipnosi Terapia <br />a Firenze e Roma</a> </span></strong></em></span><br/>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-49267472968352133252009-03-16T15:41:00.002+01:002009-03-16T15:41:59.183+01:00Le emozioni nella prima infanziaVerso i 2 anni molti bambini dispongono di un vocabolario con cui descrivere le emozioni fondamentali “Ti abbraccio. Bimbo contento”; “E’ buio. Ho paura”. Nell’età compresa tra i 2 e i 5 anni il bambino impara a riconoscere e a nominare situazioni ed espressioni del viso che denotano sentimenti diversi. La distinzione tra sentimenti positivi e negativi è la prima ad essere acquisita. Parallelamente allo sviluppo si osservano vari cambiamenti nella comprensione di diversi aspetti delle emozioni: il bambino per esempio arriva a capire sempre di più che la fonte delle emozioni può essere sia interna sia esterna, cioè legata alle situazioni. Prima dei 6-7 anni può essere in grado di nominare emozioni sia positive che negative; ma fino ai 9-10 anni non riesce a riconoscere con chiarezza l’ambivalenza o i sentimenti costituiti da un misto di emozioni negative e positive. A mano a mano che il bambino cresce, capisce sempre meglio che i sentimenti reali possono essere diversi da quelli osservabili, impara che è possibile mascherare le proprie emozioni.<br />Nel periodo compreso tra i 7 e i 12 mesi i bambini sviluppano nuove paure, probabilmente a causa dell’incremento della memoria di rievocazione (capacità di recuperare uno schema, e cioè la rappresentazione degli elementi salienti in un evento e le loro relazioni reciproche, in assenza di stimoli rilevanti) e delle memoria a breve termine (il processo tramite il quale l’esperienza presente viene messa in relazione con gli schemi immagazzinati per un periodo di 20-30 secondi).<br />La paura degli estranei: una delle paure più frequenti nel secondo semestre di vita è l’angoscia di fronte agli estranei. I bambino di 8 mesi manifesta uno stato di angoscia quando corruga il volto all’avvicinarsi degli estranei, volge lo sguardo verso la madre e l’estraneo e dopo pochi secondi comincia a piangere. Dunque, il bambino di 8 mesi per diventare ansioso, non deve osservare la persona che gli è familiare, in quanto mette a confronto l’estraneo con gli schemi recuperati nella memoria, delle figure familiari e quando non riesce ad assimilare il primo al secondo, cade nell’incertezza e si mette a piangere.<br />L’angoscia da separazione: la paura di una separazione temporanea che si prende cura di lui si manifesta quando il bambino viene lasciato in una ambiente sconosciuto o in presenza di un estraneo, mentre è meno probabile se il bambino si trova in casa o con un familiare o con una baby-sitter. L’angoscia di separazione compare di solito tra i 7 e i 12 mesi, raggiunge il culmine tra i 15 e i 18 mesi e poi diminuisce gradualmente. L’intensità dell’angoscia per una temporanea separazione dalla madre può dipendere in parte dalla qualità della relazione emotiva che si è instaurata nella coppia madre-figlio.<br />Le emozioni e le espressioni facciali: il sorriso.<br />Anche il neonato sorride ma si tratta di una reazione riflessa, stimolata spesso da un colpetto sulle labbra o sulle guance, anche se nel primo mese comparirà in risposta a determinati suoni. A 2 mesi invece il sorriso è una risposta ad una più ampia gamma di stimoli, specialmente ai volti umani e alle voci. A 3 mesi il bambino può sorridere in risposta alla maggior parte dei volti umani perché riconosce che il volto è simile ad un viso familiare, forse a quello del genitore. Nel corso del primo anno tendono a sorridere ad esempio alla madre che fa il cucù o al solletico. Ma già dall’inizio del secondo anno sorrideranno e rideranno in situazioni che hanno provocato essi stessi. La comparsa del sorriso e del riso è dunque il risultato di modificazioni cognitive.<br />L’espressione delle emozioni è influenzata sia dai fattori biologici che dall’apprendimento. Mano mano che procede il processo di maturazione, i bambini cominciano ad interpretare e ad etichettare le loro sensazioni e nel farlo usano spesso concetti appresi dagli altri. A seconda delle situazioni, i bambini imparano ad associare le loro sensazioni e la situazione, all’etichetta “rabbia”, “paura”, “vergogna”.<br /><span style="color: #ff3300;"><em><strong><br/><a <br />href="http://www.psicolife.com"><span style="font-size: 1.2em;color: <br />#33cc33;">www.psicolife.com</span></a><span style="font-size: 1.2em;"> <br /> <a href="http://www.psicolife.com">Psicologia e Ipnosi Terapia <br />a Firenze e Roma</a> </span></strong></em></span><br/>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-83091786206940166862009-02-15T10:19:00.002+01:002009-02-15T10:22:03.856+01:00Il gruppoIl gruppo si identifica come una pluralità in interazione, con un valore di legame.<br />Pluralità: il gruppo è un insieme numericamente ridotto di persone.<br />Interazione: è l’azione reciproca tra gli individui del gruppo. Si definisce almeno a tre livelli: il primo è quello dell’influenzamento reciproco dell’individuo (agito), giocato tra l’adattarsi agli altri e ad adattare gli altri; il secondo è il fare insieme più o meno concertato (possibile); il terzo è quello dell’agire contingente caratterizzato da vincoli di tempo, spazio, imposti dal qui ed ora (necessitato).<br />Legame: è il vincolo che si instaura tra gli individui che compongono un gruppo, definisce i sentimenti di appartenenza che si sviluppano tra chi si trova a condividere un campo di interazioni. Questo legame è segnato profondamente da fatti di ordine psicologico: bisogni, desideri, rappresentazioni.<br /><br /><br />I bisogni individuali e i bisogni del gruppo<br /><br />Il gruppo è il luogo nel quale si possono esprimer e soddisfare o veder frustrati l’intera gamma dei bisogni individuali.<br /><br />I bisogni individuali: stima e autostima, identità, sicurezza e contribuzione.<br />1) La stima e l’autostima sono correlate: tanto più ci si sente apprezzati e ben valutati dal proprio ambiente, tanto più alto sarà il livello di autostima, cioè l’apprezzamento che si ha di sé e il valore che si attribuisce. Il gruppo offre la possibilità di soddisfare questo bisogno, creando una situazione di “gruppalità” permanente.<br />Nelle situazioni di gruppo è possibile sperimentare l’apprezzamento e riconoscimento degli altri per le proprie doti personali e professionali e gli individui mostrano questi valori per il bisogno di vederli confermati e vederli crescere dentro di sé.<br /><br />2) Il bisogno di stima e di autostima e correlato a quello di identità ( le proprie caratteristiche, idee, capacità, aspettative, dunque ciò che riguarda la consapevolezza di sé) e all’esigenza di vederla riconosciuta dagli altri. Più una persona ha una buona consapevolezza di sé, più sarà nella situazione di ricevere feedback dal gruppo, attraverso le opinioni e le percezioni che gli altri riferiscono e riflettono parlando di noi stessi.<br /><br />3) Il bisogno di sicurezza: il gruppo protegge, copre dalle responsabilità individuali; è dunque un prendere da parte degli individui.<br /><br />4) Il bisogno di contribuzione : è rappresentato dalla spinta a fare, come la necessità di vedere le proprie realizzazioni e il proprio prodotto reso esplicito e pubblico, di svolgere un’attività il cui esito sia visibile e valorizzato dagli altri e nel quale si veda riflessa la propria personalità, capacità, competenza.<br /><br />I bisogni del gruppo: <br />1) Il senso di appartenenza: è il sentimento comune dei membri del gruppo che si riconoscono come unità, in norme, valori, cultura che essi stessi hanno generato.<br /><br />2) Essere per: è la sicurezza di poter contare sulle risorse messe a disposizione dagli altri, di non essere soli nell’affrontare ed eseguire un compito, di condividere rischi e risultati.<br />In un gruppo è importante che ci sia un giusto equilibrio tra i bisogni individuali e quelli di gruppo. Il gruppo diventa più efficace se possono essere presenti individualità e gruppo. È necessario che le tendenze alla conformità nel gruppo integrino la diversità individuale.<br />Occorre sottolineare che spesso il gruppo sviluppa una pressione sugli individui che spinge verso il conformismo affinché essi giudichino, agiscano in accordo con l’opinione e l’azione del gruppo.<br />L’altro estremo è occupato dall’anti-conformismo: cioè impossibilità dell’individuo di uniformarsi anche minimamente al gruppo e si manifesta come il rifiuto di accordare azioni e giudizi al gruppo.<br />A metà si pone l’indipendenza in virtù della quale l’individuo esprime opinioni e proposte personali ma è in grado di negoziare all’interno del gruppo la sua posizione con quella del gruppo e degli altri gruppi.<br />Individualità è sinonimo di utilizzo e valorizzazione delle differenze, arricchimento e creatività; tutto ciò contribuisce alla crescita del gruppo e al buon raggiungimento dell’obiettivo preposto.<br /><br />Un gruppo funziona bene, se oltre al dare spazio alle differenze individuali, il gruppo è aperto e cioè se ogni membro si dà la possibilità di esprimere le proprie idee e opinioni liberamente, senza sentire di essere giudicati e di doversi di conseguenza difendere, difendere la propria individualità per paura che non venga accettata dagli altri.<br />Una buona apertura all’interno del gruppo aumenta il disaccordo e il dissenso e permette di gestire e impiegare costruttivamente il conflitto che spesso invece si tende a nascondere e a negare per paura che venga fori chissà che cosa ma anche per la caratteristica del gruppo di proteggere. Ma poi ci si chiede: perché il gruppo ha bisogno di proteggere?<br />Per funzionare bene è inoltre fondamentale che, tra i membri di un gruppo, sia presente il feedback: è la percezione circa le informazioni di ritorno e il livello di ascolto per le opinioni espresse dagli altri. Conoscere se stessi nel contesto del gruppo significa conoscere come ci si mette in relazione con gli altri. La fonte più importante e significativa per questo apprendimento è il feedback fornito dagli altri membri. Il feedback è una fonte di autoconoscenza alla condizione che il ricevente sia in grado di accettarlo e accoglierlo e che lo consideri un arricchimento per sé.<br /><br /><span style="color: #ff3300;"><em><strong><br/><a <br />href="http://www.psicolife.com"><span style="font-size: 1.2em;color: <br />#33cc33;">www.psicolife.com</span></a><span style="font-size: 1.2em;"> <br /> <a href="http://www.psicolife.com">Psicologia e Ipnosi Terapia <br />a Firenze e Roma</a> </span></strong></em></span><br/>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-12476071755628913762009-01-11T18:19:00.002+01:002009-01-11T18:21:55.109+01:00Il Sistema di Attaccamento secondo la teoria di BowlbyIL SISTEMA DI ATTACCAMENTO: BOWLBY<br />L’attaccamento è quel legame fondamentale che lega un essere umano ad un altro. L’attaccamento è mediato dal guardare, dall’ascoltare e dal tenere. Sentire l’attaccamento vuole dire sentirsi sicuri e protetti.<br />La base sicura è l’atmosfera creata dalla figura di attaccamento, essa crea quel trampolino per esprimere la curiosità e l’esplorazione.<br />Caratteristiche del Sistema di Attaccamento:<br /> Ricerca di vicinanza a una figura preferita<br /> L’effetto “base sicura”<br /> Protesta per la separazione<br />Solo dopo 6 mesi si sviluppa il sistema di attaccamento e il bambino ricerca la vicinanza, una base sicura e protesta per la separazione dalla figura di riferimento.<br />Il comportamento di attaccamento si riferisce tanto a chi fornisce accadimento quanto a chi lo richiede. Infatti una madre che lascia il suo bambino/a con qualcuno che se ne occupa e sente terribilmente la sua mancanza, ne è un esempio.<br />LO SVILUPPO DEL SISTEMA DI ATTACCAMENTO:<br /> 0-6 mesi:orientamento e pattern di riconoscimento.<br /> La vista del volto umano: l’attenzione della risposta del sorriso avviene intorno alla IV settimana; è l’inizio della relazione tra il bambino e chi se ne occupa. Il sorriso del bambino evoca un sorriso di rispecchiamento nella madre: quanto più lei risponde al sorriso tanto più il bambino continua a sorridere e così via.<br /> Lo sguardo reciproco.<br /> Il tenere (holding): riguarda non solo il sostegno fisico ma l’intero sistema psicofisiologico di protezione, sostegno, cura e contenimento.<br /> Nella seconda metà dei primi 6 mesi ci sono gli inizi di una relazione di attaccamento; il bambino diventa più discriminante nel suo guardare, ascolta e reagisce in maniera differente alla voce della madre. Si stabilisce un reciproco conoscersi l’un l’altro che è il perno centrale di una relazione madre – bambino sicura.<br /> 6 mesi-3 anni: verso i 7 mesi il bambino comincerà a mostrare ansia per l’estraneo, facendosi silenzioso e aggrappandosi alla madre.<br />Questi cambiamenti nel bambino coincidono con l’attivazione della locomozione. Il bambino immobile è costretto a rimanere dove si trova invece la madre del bambino mobile deve sapere che il bambino si muoverà verso di lei nei momenti di pericolo e quando è necessario, il bambino ha bisogno di mandare segnali di protesta o di angoscia a sua madre.<br />Il comportamento di attaccamento è una relazione reciproca.<br />È definito come “ogni forma di comportamento che appare in una persona che riesce ad ottenere o a mantenere la vicinanza a qualche altro individuo differenziato e preferito”.<br />Il genitore offre un comportamento di cura che è o dovrebbe essere simmetrico a quello del bambino. Ad esempio in una situazione nuova il bambino ricercherà il contatto visivo con la madre, alla ricerca di suggerimenti che spingono verso l’esplorazione o il ritiro.<br />Il genitore iperansioso può inibire il comportamento esplorativo del bambino facendolo sentire represso e soffocato.<br />Il genitore trascurante può inibire l’esplorazione perché non fornisce una base sicura e porta ad un sentimento di angoscia e di abbandono.<br /> Dai 3 anni in poi: si stabilisce il sistema di attaccamento. <br />Con l’avvento del linguaggio e l’espandersi della complessità psicologica del bambino, dai 3 ai 4 anni, il bambino può cominciare a pensare ai genitori come persone separate con propri scopi e progetti ed escogitare modi per influenzarli.<br />Mary Ainsworth “La Strange Situation”:<br />La Strange Situation è una seduta di 20 minuti in cui la madre e il bambino si trovano in una stanza da gioco con uno sperimentatore. La madre lascia la stanza per 3 minuti, lasciando il bambino con l’estraneo. Poi si riuniscono madre e bambino.<br />In un momento successivo lasciano la stanza la madre e lo sperimentatore per 3 minuti, lasciando il bambino da solo e poi si riuniscono madre e bambino.<br />1. Attaccamento sicuro: sono bambini angosciati dalla separazione. Al momento della riunione salutano il loro genitore, ricevono conforto, se ce ne è bisogno e poi tornano a giocare felici e soddisfatti.<br />2. Attaccamento insicuro-evitante: pochi segni di angoscia e ignorano la madre al momento della riunione, specialmente nella seconda occasione quando lo stress è maggiore. Rimangono guardinghi nei confronti della madre e inibiti nel gioco.<br />3. Attaccamento insicuro-ambivalente: sono fortemente angosciati dalla separazione e ignorano la madre al momento della riunione. Cercano fortemente il contatto ma resistono scalciando, scalciando e buttando via i giocattoli che gli si danno. Continuano ad alternare stati di rabbia e momenti in cui si stringono violentemente alla madre; il gioco esplorativo è inibito.<br />4. Attaccamento insicuro-disorganizzato: i comportamenti del bambino sono confusi come per esempio il restare paralizzati o fare movimenti stereotipati quando vengono riuniti ai loro genitori.<br />Le radici dell’Attaccamento Sicuro e di quello Insicuro:<br />Bowlby considerava lo sviluppo della personalità essenzialmente in termini di influenza ambientale: le relazioni sono primarie, piuttosto che l’istinto o il patrimonio genetico.<br />La chiave dell’attaccamento sicuro è un’interazione attiva e reciproca.<br />L’attaccamento insicuro è il risultato di insufficienti risposte sensibili.<br /><br /><span style="color: #ff3300;"><em><strong><br/><a <br />href="http://www.psicolife.com"><span style="font-size: 1.2em;color: <br />#33cc33;">www.psicolife.com</span></a><span style="font-size: 1.2em;"> <br /> <a href="http://www.psicolife.com">Psicologia e Ipnosi Terapia <br />a Firenze e Roma</a> </span></strong></em></span><br/>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-63868642753543493422008-11-24T15:58:00.002+01:002008-11-24T16:00:30.128+01:00La comorbidità del gioco d'azzardo patologicoComorbidità del gioco d’azzardo patologico<br />Il gioco d’azzardo patologico è un disturbo psichico a se stante con un alta comorbidità per altre patologie psichiche e si instaura su una personalità disturbata, con possibilità di presenza di disturbi relazionali e sociali. Il funzionamento globale del soggetto può diventare progressivamente disfunzionale, fino ad essere del tutto compromesso. <br />L’alta comorbidità del gioco d’azzardo patologico riguarda l’alcolismo, l’abuso di sostanze, il disturbo di personalità antisociale, il disturbo di personalità narcisistico-borderline, la depressione, il disturbo bipolare.<br /><br />Comorbidità depressiva<br />Per quanto riguarda la comorbidità psichiatrica, è stata segnalata l’elevata incidenza di sintomi depressivi in soggetti che presentano una dipendenza da gioco d’azzardo. <br />Una buona percentuale di soggetti con gioco d’azzardo patologico riporta una ideazione suicidaria e si ritiene che alcuni di essi abbia tentato almeno una volta il suicidio. Non è ancora del tutto chiaro se la depressione sia una conseguenza della dipendenza da gioco d’azzardo o se il giocatore patologico soffra di un disturbo depressivo.<br /><br />Comorbidità con gli stati di dipendenza da sostanza<br />Il gioco d’azzardo patologico e la dipendenza da sostanze presentano nella loro sintomatologia numerose analogie. I criteri di inclusione previsti dal DSM-IV per i due disturbi sono in effetti abbastanza simili: presentano entrambi fenomeni di tolleranza, dipendenza, craving, astinenza, oltre ad un rilevante impatto sulla vita personale, familiare, sociale, finanziaria e legale del soggetto coinvolto. La perdita di controllo è inoltre esperienza comune sia ai soggetti tossicodipendenti sia ai giocatori problematici.<br />Il craving indica la brama irrefrenabile verso un oggetto o l’impulso di svolgere un comportamento. Esso viene inizialmente vissuto come un impulso che fornisce effetti altamente benefici al soggetto. In una fase successiva il soggetto è assorto sempre più ripetutamente dall’azione compulsiva: il craving è sempre più intenso sia per la mera ricerca di piacere sia per allontanare stati disforici (noia, ansia, depressione, ecc.). I ritmi di abuso si fanno poi serrati e compaiono i primi sintomi da sindrome da astinenza dovuti ai tentativi di esercitare l’autocontrollo. Nel tentativo di resistere al craving si nota l’incapacità dell’individuo di controllare l’impulso. Il dipendente riuscirà a frenarsi solo per breve tempo e tornerà repentinamente ad indulgere nel comportamento distruttivo. L’illusione di potere, l’esaltazione iniziale cede il passo alla constatazione dell’incapacità di controllarsi. In questi momenti sono presenti tutti i sintomi tipici della crisi d’astinenza quali irritabilità, ansietà, insonnia, sudorazione, tremori ecc.<br />Il concetto di tolerance (tolleranza) descrive la reazione psico-fisica che impone l’aumento delle dosi dell’oggetto della dipendenza o del comportamento. Essa non è sempre presente con continuità ma può andare a sbalzi alternando momenti di maggior controllo e aumentando improvvisamente.<br /><br />Comorbidità con gli stati di dipendenza da alcol<br />Molti studi riportano un incidenza di gioco d’azzardo patologico da otto a dieci volte maggiore in pazienti alcol -dipendenti rispetto alla popolazione generale.<br />Tra il gioco d’azzardo e l’alcolismo esistono molte affinità. Spesso il bere e l’assunzione di droghe accompagna il gioco d’azzardo.<br />La presenza di patologie relative al gioco d’azzardo, pone questi pazienti ad un maggior rischio di ricadute nell’alcol (in molti casinò le bevande alcoliche sono distribuite gratuitamente), così come li espone al pericolo di un mutamento di dipendenza: è possibile, infatti, che i giocatori sostituiscano lo “stato” che deriva dall’assunzione di alcol, con quello provocato dall’azione del gioco d’azzardo.<br />Somiglianze forti tra l’alcol-dipendenza e il gioco d’azzardo patologico riguardano la progressività del disturbo, la perdita del controllo, che può essere periodica o continua, la continuazione del comportamento di dipendenza nonostante le conseguenze negative e spesso disastrose sulla qualità della vita. I giocatori d’azzardo associano più facilmente l’uso di alcol alla vincita piuttosto che alla perdita; le vincite al gioco sembrano rafforzare l’uso di bevande alcoliche e ciò spiega perché gioco d’azzardo e alcolismo spesso sembrano andare di pari passo.<br />Chi beve anche moderate quantità di alcol mentre gioca d’azzardo, tende a giocare più a lungo, spendere più soldi e correre maggiori rischi rispetto a chi non beve. Le ricerche affermano che l’uso di alcol diminuisce la percezione della soglia di rischio.<br /><br /><span style="color: #ff3300;"><em><strong><br/><a <br />href="http://www.psicolife.com"><span style="font-size: 1.2em;color: <br />#33cc33;">www.psicolife.com</span></a><span style="font-size: 1.2em;"> <br /> <a href="http://www.psicolife.com">Psicologia e Ipnosi Terapia <br />a Firenze e Roma</a> </span></strong></em></span><br/>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-20771959727877882672008-10-21T12:49:00.003+02:002008-11-19T19:56:07.316+01:00Le interazioni triadicheLe interazioni triadiche<br /><br />L’unità di base in cui sviluppiamo le nostre relazioni intime è il triangolo primario che è costituito dalla madre, dal padre e dal bambino. Così i bambini interiorizzano le relazioni che stabiliscono con i genitori, soprattutto con la madre, creando nelle loro menti dei modelli di tali relazioni.<br />I triangoli sono in costante movimento e cambiano di minuto in minuto, di ora in ora. I genitori ed il bambino imparano a muoversi all’interno di questo triangolo dove si fonderanno comportamenti individuali e diadici in varie combinazioni triangolari.<br />Quando è che nasce la “patologia” o si manifesta il sintomo del bambino?<br />I disturbi psicosomatici di un bambino o disturbi funzionali possono nascere per esempio in un matrimonio di una coppia che non è accettato dalla famiglia di origine di uno dei due, che a sua volta si viene a trovare in una situazione di conflitto di lealtà tra la sua famiglia nucleare e quella di origine. Allora il bambino con il suo disturbo può dirigere l’attenzioni della coppia coniugale che si deve attivare per risolvere la situazione ed evitare così il conflitto.<br />La letteratura sulla terapia familiare parla di “triangoli perversi” (Haley, 1971) e “triangoli rigidi” ( Minuchin, 1975), situazioni in cui le risorse del bambino sono utilizzate per regolare il conflitto coniugale. Facciamo alcuni esempi: il bambino viene preso in una disputa tra i genitori, incoraggiato velatamente a prendere le parti e a colludere con uno dei genitori contro l’altro, finendo in una posizione di ruolo che non è la sua e cioè in una posizione generazionale invertita, come la direbbe BoszormenyiNagy (1973), di “parentificazione”. Un altro esempio è quando il bambino può essere spinto ad assumere una posizione di “capro espiatorio” o di persona malata o vulnerabile, per evitare il conflitto coniugale.<br />I bambini imparano molto presto a muoversi all’interno delle relazioni con i genitori e percepiscono anche molto presto quando c’è bisogno di lui, di lui che si trova a “sacrificare” il suo ruolo pur di tenere uniti mamma e papà.<br />Si sente molto spesso dire “ma è ancora troppo piccolo per accorgersi che tra me e mio marito non scorre buon sangue……”; ma non è assolutamente vero, anche il bambino molto piccolo è in grado di percepire quando c’è qualcosa di “strano” ed è in grado, attraverso le sue risorse, di prendersi la briga di sistemare la situazione. E da qui nasce il sintomo!.<br /><br /><br />Bibliografia<br /><br />-Byng-Hall, J. (1995). Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico. Raffaello Cortina Editore, Milano 1998.<br /><br />-Fivaz-Depeursinge, E., Corboz-Warnery, A. Il triangolo primario. Le prime interazioni triadiche tra padre, madre e bambino. Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.<br /><br />-Minuchin, S. (1978). Famiglie psicosomatiche. Astrolabio, Roma 1980.<br /><br />-Norsa, D., Zavattini, G.C., (1997). Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia. Raffaello Cortina Editore, Milano.<br /><br /><a href="http://www.psicolife.com/"><strong><span style="color: rgb(255, 51, 0);"><em></em></span></strong></a><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size:100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size:100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a><a href="http://www.psicolife.com/"> </a></span></em></strong><span style="color: rgb(255, 51, 0);"><em><strong><span style="font-size:78%;"></span></strong></em></span><p></p>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-634414332952911961.post-34959027767375870302008-08-16T19:54:00.002+02:002008-11-19T19:54:31.664+01:00Il Disturbo ossessivo-compulsivoIl disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)<br /><br />In psicopatologia il termine “ossessione” indica la condizione di essere “sotto assedio” contro la propria volontà e al tempo stesso quella di essere posseduti da un’entità estranea.<br />Nel linguaggio psicopatologico l’ossessione è definita come una “rappresentazione mentale” che irrompe ed è contro la volontà del soggetto.<br />Si può parlare di ossessione se si presentano le seguenti caratteristiche:<br />1. presentarsi continuamente e in modo invasivo nella mente del soggetto, disturbando il corso normale dei suoi pensieri e limitando le sue normali attività. L’impulso si può definire ossessivo se si presenta nei pensieri più volte al giorno (iterazione);<br />2. essere vissuta dal soggetto come estranea ai suoi pensieri e sentimenti, inaccettabile e incompatibile (estraneità);<br />3. essere incoercibile, cioè il soggetto è incapace di allontanare o contrastare il pensiero ossessivo (incoercibilità).<br /><br />Il termine “compulsione” implica il concetto di essere costretti a mettere in atto dei comportamenti contro la propria volontà.<br />Secondo il DSM-IV la compulsione è definita dalle seguenti caratteristiche:<br />1. sono comportamenti ripetitivi in risposta ad una ossessione o secondo determinate regole;<br />2. l’azione serve a contrastare eventi temuti o a neutralizzare una situazione di disagio del soggetto;<br />3. la persona riconosce che il suo comportamento è eccessivo o irragionevole;<br />4. pur sperimentando una diminuzione della tensione, il soggetto non prova alcun piacere nella messa in atto del comportamento.<br /><br />Vella, Siracusano 1991, distinguono tre gruppi di sintomi che definiscono il disturbo ossessivo compulsivo:<br />1. il soggetto è invaso da idee ossessive che si impongono alla sua mente malgrado egli cerchi di opporsi. Sono rappresentazioni mentali che si intromettono nella coscienza, contro la volontà dell’individuo e che persistono tenacemente, tanto che risulta impossibile scacciarle o modificarle con il ragionamento. Spesso vi è un intenso senso di colpa;<br />2. il contenuto di coscienza intrusivo e persistente (il dubbio, l’ordine, la pulizia) genera una esistenza oppositiva e la messa in atto di strategie di controllo che si esprimono attraverso le compulsioni (atti ripetitivi finalizzati a ridurre l’ansia e a far persistere l’ossessione);<br />3. sul piano affettivo il soggetto sperimenta sentimenti di depressione. Negli ossessivi appare alterato il senso del reale, si manifesta un’assenza di decisione, di risoluzione volontaria, di fiducia e di attenzione, l’incapacità di provare un sentimento adeguato in rapporto alla situazione il ritorno verso l’immaginario.<br /><br />Tra i disturbi correlati al disturbo ossessivo compulsivo troviamo il disturbo del controllo degli impulsi (cleptomania, tricotillomania, piromania, gioco d’azzardo patologico), i disturbi sessuali (parafilie: esibizionismo, voyeurismo, feticismo), i disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia), i disturbi da tic, i disturbi dissociativi. Le forme patologiche caratterizzate da un discontrollo degli impulsi hanno come caratteristica che gli impulsi sono egosintonici e la loro messa in atto, oltre a ridurre lo stato di tensione, produce nel soggetto un senso di soddisfazione e piacere.<br /><br />Trattameno psicoterapico: un approccio integrato<br /><br />1. Terapia cognitivo comportamentale<br />2. Terapia sistemico relazionale<br />3. Terapia farmacologia<br /><br />1. In base alla mia esperienza con soggetti affetti da DOC, la terapia cognitivo-comportamentale aiuta a ridurre la frequenza di pensieri ossessivi e di conseguenza di compulsioni, sviluppando strategie e tecniche che individuano e mettono alla prova le “distorsioni cognitive” del soggetto.<br />I pensieri automatici dei paziento ossessivo-compulsivi hanno alla base determinate convinzioni o credenze su se stessi e sul mondo:<br />- esistono comportamenti, decisioni od emozioni giusti e sbagliati<br />- commettere un errore significa aver fallito, meritare le critiche<br />- il fallimento è intollerabile<br />- devo avere il totale controllo del mio ambiente e di me stesso<br />- la perdita di controllo è intollerabile e pericolosa<br />- Sono così potente da innescare o prevenire venti catastrofici mediante rituali magici o <br />ruminazioni ossessive.<br /><br />2. Dopo aver lavorato sul sintomo, la compulsione, si ricorre al lavoro sul contesto familiare del soggetto. L’obiettivo è quello di lavorare sulle dinamiche relazionali disfunzionali che possono aver dato origine o aver alimentato il sintomo. Come, quando il DOC di un membro della famiglia si è manifestato e in che modo influisce sulla stessa e sui singoli? Questo ci aiuta a capire le origini e la natura del sintomo. Se non cambiano le “regole” della famiglia di un soggetto portatore di una patologia, il lavoro psicoterapico non è completo.<br /> Le reazioni dei membri della famiglia possono essere svariate:<br />- i genitori si irrigidiscono in un ruolo oppositivo verso i sintomi con richieste molto elevate e con scarsa tolleranza;<br />- i genitori colludono con i sintomi ossessivo-compulsivo. Sono famiglie “invischiate”, con difficoltà a mettere confini e sono caratterizzate da evitamento del conflitto;<br /><br /> 3. Infine la valutazione diagnostica da parte di uno psichiatra, si decide se iniziare un <br /> trattamento farmacologico.<br /> Attualmente sono considerati farmaci di prima scelta nella cura del DOC:<br />- gli antidepressivitriciclici<br />- gli antidepressivi serotoninergici (inibitori selettivi della serotonina)<br /><br />Nel caso di un trattamento farmacologico è necessario:<br />- formulare un diagnosi precisa<br />- valutare l’eventuale comorbilità con altri disturbi psichiatrici<br />- scegliere il dosaggio più idoneo<br />- programmare la durata del trattamento e monitorare la corretta esecuzione della terapia mediante controlli periodici<br />- programmare la sospensione graduale della terapia<br /><a href="http://www.psicolife.com/"><strong><span style="color: rgb(255, 51, 0);"><em></em></span></strong></a><strong><em><a href="http://www.psicolife.com/"><span style="font-size:100%;"><span style="color: rgb(51, 204, 51);">www.psicolife.com</span></span></a><span style="font-size:100%;"><a href="http://www.psicolife.com/"> </a><br /><a href="http://www.psicolife.com/">Psicologia e Ipnosi Terapia<br />a Firenze e Roma</a><a href="http://www.psicolife.com/"> </a></span></em></strong><span style="color: rgb(255, 51, 0);"><em><strong><span style="font-size:78%;"></span></strong></em></span><p></p>Dott.ssa Di Pasquali Alessandra psicoterapeutahttp://www.blogger.com/profile/11381669732966528670noreply@blogger.com0