L’ontogenesi del linguaggio si sviluppa intorno a 3 tappe essenziali:
• Il prelinguaggio (fino ai 12-13 mesi, talvolta 18 mesi)
• Il piccolo linguaggio (da 10 mesi a 2 e mezzo 3 anni)
• Il linguaggio (partendo dai 3 anni)
Partendo dalle grida del neonato che esprimono tutta una gamma di sensazioni (collera, impazienza, dolore, soddisfazione, piacere) sulla base delle risposte che da la madre.
Partendo da 1 mese, compare il cinguettio o la lallazione: il cinguettio è costituito all’inizio da suoni non specifici in risposta a stimoli non specifici. La lallazione si arricchisce rapidamente sul piano qualitativo così bene che il bambino sembra in grado di produrre, in maniera puramente casuale, tutti i suoni immaginabili.
Dai 6 agli 8 mesi, appare il periodo dell’ecolalia: una specie di dialogo che si stabilisce tra il bambino e sua madre o suo padre; risponde alla parola dell’adulto con una specie di melodia relativamente omogenea, continua. Poco a poco la ricchezza delle emissioni sonore iniziali si riduce per lasciar posto solo ad alcune emissioni vocaliche e consonantiche fondamentali.
Le prime parole compaiono spesso in situazione di ecolalia. A 12 mesi un bambino può aver acquisito da 5 a 10 parole: a 2 anni il vocabolario può comprendere 200 parole, con grandi differenze nell’età dell’acquisizione e nella rapidità. La comprensione passiva precede sempre l’espressione attiva. Nel periodo della “parola frase”, il bambino utilizza una parola il cui significato dipende dal contesto gestuale, mimico o situazionale che è soprattutto quello che l’adulto gli dà. Così “to, to” può voler dire “io vedo una macchina”, “io sento una macchina”, “è la macchina di papà”.
Verso i 18 mesi, appaiono le prime frasi, cioè le prime combinazioni di due parle frasi: “pati-papà”, “dodo-bebé”.
Il linguaggio
È un periodo più lungo e complesso nell’acquisizione che si caratterizza per un arricchimento sia quantitativo (dai 3 anni e mezzo e i 5 anni un bambino può impadronirsi anche di 1500 parole, senza comprenderne sempre il significato in maniera corretta) e qualitativo.
Verso i 3 anni l’introduzione dell’”io” può essere considerata come la prima tappa dell’accesso al linguaggio dopo il periodo in cui il bambino si indica con “me” e un lungo periodo transitorio in cui egli utilizza “io me”.
L’arricchimento quantitativo e qualitativo sembra prodursi partendo da:
• Un’attività verbale libera, in cui il bambino continua ad utilizzare un “grammatica” autonoma, stabilita partendo dal piccolo linguaggio;
• Un’attività verbale “mimetica” in cui il bambino ripete nella sua maniera il modello dell’adulto, acquisendo progressivamente parole e costruzioni nuove che sono poi immesse nella sua attività verbale “libera”.
Tra i 4 e i 5 anni, l’organizzazione sintattica del linguaggio diviene sempre più complessa in modo tale che il bambino può fare a meno di qualsiasi supporto concreto per comunicare.
Ritardo semplice del linguaggio
Il ritardo semplice del linguaggio è una manifestazione ad evoluzione favorevole. Essa consiste in una condizione nella quale, all’età di 3-4 anni il linguaggio non è ancora comparso. È un disturbo frequente che colpisce particolarmente i maschi.L’alterazione non interessa solo la parola: questa infatti non viene riprodotta esattamente in conseguenza di una difficoltà ad analizzare la natura dei fenomeni e a riprodurli nel loro ordine. Più spesso al ritardo della parola si associa un ritardo dell’organizzazione del linguaggio.
Il disturbo è caratterizzato da:
• Sostituzione di consonanti sonore con le sorde corrispondenti ( b sostituito da p; v da f; z da s);
• Sostituzione di consonanti ostruttive con le corrispondenti occlusive (z o s sostituite da t o d);
• Omissioni di finali;
• Semplificazione di gruppi consonantici (ta al posto di sta);
• Contrazione o dissociazione di fonemi (i al posto di li).
Il ritardo semplice del linguaggio può essere dovuto a disturbi della maturazione cerebrale che comportano una difettosa percezione del linguaggio, a carenze qualitative e quantitative del linguaggio nella famiglia. Il disturbo viene rinforzato dall’atteggiamento dei genitori quando tendono a correggere la pronuncia del bambino o quando mostrano atteggiamenti di compiacimento. Se il ritardo della comparsa del linguaggio si protrae al di là dei 4 anni si dovrà prospettare una condizione patologica. Il periodo tra i 3 e i 5 anni rappresenta una soglia critica per il rischio che l’alterazione si fissi. Per questo è importante un aiuto terapeutico. Si tratterà di una rieducazione ortofonica, di una rieducazione psicomotoria incentrata soprattutto sulle componenti spazio-temporali (ritmo, melodia) e sull’integrazione dello schema corporeo. In alcuni casi una psicoterapia della coppia madre-bambino si dimostra necessaria quando le loro relazioni sembrano organizzarsi con modalità patologiche.
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Terapia Sistemico Familiare
Psicologia e Psicoterapia Sistemico Familiare. Informazioni scientifiche curate dal Dr.ssa Alessandra Di Pasquali, Psicologa e Psicoterapueta, Roma; per Psicolife (www.psicolife.com) - Il portale di informazione scientifica sula psicologia e l'ipnosi
lunedì 27 giugno 2011
lunedì 14 marzo 2011
J.Bowlby e la terapia familiare
In un articolo intitolato “Reazioni circolari nella famiglia e in altri gruppi sociali”, Bowlby parla di “circoli negativi della nevrosi” nei quali “genitori insicuri creano figli insicuri che crescendo creano una società insicura che a sua volta crea altri genitori insicuri” e in contrasto a tutto ciò indica i circoli positivi della salute e del bisogno di “un grande sforzo terapeutico: quello di ridurre la tensione e di promuovere la comprensione e la cooperazione tra i gruppi di esseri umani”.
Le idee di Bowlby sono state sviluppate in Gran Bretagna da John Byng-Hall (1991) che si è occupato di aspetti spaziali dell’attaccamento che possono essere illustrati dalla metafora del porcospino di Schopenhauer come un’immagine del dilemma “troppo lontano-troppo vicino” all’interno delle famiglie.
Un certo numero di porcospini si raggruppano in un freddo giorno di inverno tentando di riscaldarsi; ma non appena cominciarono a pungersi l’uno con l’altro con i loro aculei furono obbligati a disperdersi. Tuttavia il freddo li spinse ad avvicinarsi nuovamente ma si ripeté la scena precedente. Alla fine dopo che per molte volte si erano raggruppati e dispersi scoprirono che la cosa migliore per loro sarebbe stata quella di rimanere a poca distanza gli uni dagli altri. (citato in Melges, Swartz, 1989).
Byng-Hall (1991), da una prospettiva neuropsichiatrica infantile, vede il paziente sintomatico in una famiglia che non funziona comportarsi come la zona cuscinetto tra i genitori porcospini: quando i genitori cominciano ad allontanarsi il bambino sviluppa sintomi che li fanno riunire e quando di converso essi diventano pericolosamente vicini egli si insinua tra di loro alleviando i pericoli immaginari dell’intimità. Byng-Hall (1985) vede i presupposti e gli assunti che i partner portano dalle loro “famiglie d’origine” nelle loro “famiglie di procreazione” in termini di “copioni familiari”; più precisamente “pattern di interazione o danza” (Minuchin, 1974) che un individuo si aspetta da sé e da coloro che gli sono vicini. La psicoterapia con i suoi obiettivi fondamentali (il bisogno di fornire una base sicura, l’aiuto dato alle persone nell’esprimere e venire a patti con la rabbia e le delusioni, cose che possono essere viste nei termini della protesta della separazione, l’aiuto a raggiungere l’integrazione e la coerenza all’interno di se stessi e con la propria famiglia), rappresenta un tentativo di intervenire in questo ciclo per mezzo dell’alterazione di un “pattern di relazione”.
La relazione terapeutica diviene un’importante opportunità di sperimentare, nel tentativo di cambiare i modelli di relazione abituali in un contesto che non è il solito.
Lavorando nel processo terapeutico sulle relazioni significative dell’individuo con il mondo circostante ma soprattutto sulla relazione che stabilisce con il terapeuta, è possibile cambiare anche il suo modo di intervenire nel sistema dei rapporti familiari.
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Le idee di Bowlby sono state sviluppate in Gran Bretagna da John Byng-Hall (1991) che si è occupato di aspetti spaziali dell’attaccamento che possono essere illustrati dalla metafora del porcospino di Schopenhauer come un’immagine del dilemma “troppo lontano-troppo vicino” all’interno delle famiglie.
Un certo numero di porcospini si raggruppano in un freddo giorno di inverno tentando di riscaldarsi; ma non appena cominciarono a pungersi l’uno con l’altro con i loro aculei furono obbligati a disperdersi. Tuttavia il freddo li spinse ad avvicinarsi nuovamente ma si ripeté la scena precedente. Alla fine dopo che per molte volte si erano raggruppati e dispersi scoprirono che la cosa migliore per loro sarebbe stata quella di rimanere a poca distanza gli uni dagli altri. (citato in Melges, Swartz, 1989).
Byng-Hall (1991), da una prospettiva neuropsichiatrica infantile, vede il paziente sintomatico in una famiglia che non funziona comportarsi come la zona cuscinetto tra i genitori porcospini: quando i genitori cominciano ad allontanarsi il bambino sviluppa sintomi che li fanno riunire e quando di converso essi diventano pericolosamente vicini egli si insinua tra di loro alleviando i pericoli immaginari dell’intimità. Byng-Hall (1985) vede i presupposti e gli assunti che i partner portano dalle loro “famiglie d’origine” nelle loro “famiglie di procreazione” in termini di “copioni familiari”; più precisamente “pattern di interazione o danza” (Minuchin, 1974) che un individuo si aspetta da sé e da coloro che gli sono vicini. La psicoterapia con i suoi obiettivi fondamentali (il bisogno di fornire una base sicura, l’aiuto dato alle persone nell’esprimere e venire a patti con la rabbia e le delusioni, cose che possono essere viste nei termini della protesta della separazione, l’aiuto a raggiungere l’integrazione e la coerenza all’interno di se stessi e con la propria famiglia), rappresenta un tentativo di intervenire in questo ciclo per mezzo dell’alterazione di un “pattern di relazione”.
La relazione terapeutica diviene un’importante opportunità di sperimentare, nel tentativo di cambiare i modelli di relazione abituali in un contesto che non è il solito.
Lavorando nel processo terapeutico sulle relazioni significative dell’individuo con il mondo circostante ma soprattutto sulla relazione che stabilisce con il terapeuta, è possibile cambiare anche il suo modo di intervenire nel sistema dei rapporti familiari.
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lunedì 14 febbraio 2011
Teoria dell’attaccamento e pratica psicoterapeutica
“L’alleanza terapeutica viene definita come una base sicura, un oggetto interno come modello operante o rappresentazionale di una figura d’attaccamento, la ricostruzione come l’esplorazione dei ricordi del passato, la resistenza come profonda riluttanza a disobbedire agli ordini antichi dei genitori di non parlare o di non ricordare”. (Bowlby, 1988).
La teoria dell’attaccamento prevede che quando qualcuno si confronta con la malattia, con la disgrazia o con una minaccia, egli cerchi la figura d’attaccamento dalla quale poter ottenere conforto. Una volta che si è stabilita una base sicura, il comportamento di attaccamento si riduce e si può cominciare ad esplorare: in questo caso l’esplorazione riguarderà la situazione che ha causato la disgrazia e i sentimenti che ha provocato.
Lo stabilirsi di una base sicura dipende dall’interazione tra chi chiede e chi dà aiuto. Il paziente porta con se stesso in terapia tutti i fallimenti, i sospetti, le perdite che ha sperimentato nella propria vita. Le forme difensive dell’attaccamento insicuro (evitamento, ambivalenza, disorganizzazione) entrano in gioco nella relazione con il terapeuta. Ci sarà una lotta tra questi pattern abituali e l’abilità del terapeuta nel fornire una “base sicura”: la capacità di essere in grado di reagire in modo sensibile ed essere in sintonia con i sentimenti del paziente, di ricevere proiezioni e di trasformarle in modo che il paziente possa affermare le emozioni in esse contenute fin qui non trasformabili. Nella misura in cui ciò avviene il paziente lascerà andare gradualmente l’attaccamento al terapeuta mentre, simultaneamente, costruisce una base sicura all’interno di se stesso. Il risultato di tutto ciò, mentre la terapia si avvia alla sua conclusione, è che il paziente è più capace di formare relazioni di attaccamento meno ansiose nel mondo esterno e si sente più sicuro dentro di sé.
Una parte importante del compito della terapia consiste nel tirare fuori e modificare gli “schemi mentali” del paziente. Dal momento che il paziente ha molte probabilità di sviluppare uno stretto attaccamento al terapeuta, i suoi assunti, le sue preconcezioni e le cose in cui crede saranno portati in gioco nella relazione con il terapeuta, il quale “ri-proporrà”, mano mano che diventano visibili, alla reciproca considerazione.
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La teoria dell’attaccamento prevede che quando qualcuno si confronta con la malattia, con la disgrazia o con una minaccia, egli cerchi la figura d’attaccamento dalla quale poter ottenere conforto. Una volta che si è stabilita una base sicura, il comportamento di attaccamento si riduce e si può cominciare ad esplorare: in questo caso l’esplorazione riguarderà la situazione che ha causato la disgrazia e i sentimenti che ha provocato.
Lo stabilirsi di una base sicura dipende dall’interazione tra chi chiede e chi dà aiuto. Il paziente porta con se stesso in terapia tutti i fallimenti, i sospetti, le perdite che ha sperimentato nella propria vita. Le forme difensive dell’attaccamento insicuro (evitamento, ambivalenza, disorganizzazione) entrano in gioco nella relazione con il terapeuta. Ci sarà una lotta tra questi pattern abituali e l’abilità del terapeuta nel fornire una “base sicura”: la capacità di essere in grado di reagire in modo sensibile ed essere in sintonia con i sentimenti del paziente, di ricevere proiezioni e di trasformarle in modo che il paziente possa affermare le emozioni in esse contenute fin qui non trasformabili. Nella misura in cui ciò avviene il paziente lascerà andare gradualmente l’attaccamento al terapeuta mentre, simultaneamente, costruisce una base sicura all’interno di se stesso. Il risultato di tutto ciò, mentre la terapia si avvia alla sua conclusione, è che il paziente è più capace di formare relazioni di attaccamento meno ansiose nel mondo esterno e si sente più sicuro dentro di sé.
Una parte importante del compito della terapia consiste nel tirare fuori e modificare gli “schemi mentali” del paziente. Dal momento che il paziente ha molte probabilità di sviluppare uno stretto attaccamento al terapeuta, i suoi assunti, le sue preconcezioni e le cose in cui crede saranno portati in gioco nella relazione con il terapeuta, il quale “ri-proporrà”, mano mano che diventano visibili, alla reciproca considerazione.
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martedì 11 gennaio 2011
Le caratteristiche di una relazione tra madre e bambino: la relazione di attaccamento
Come sanno bene i genitori dei bambini in grado di camminare, i bambini piccoli sono inclini a seguire le loro figure di attaccamento ovunque esse vadano. La distanza alla quale il bambino si sente a suo agio dipende da fattori come l’età, il temperamento, la storia dello sviluppo, dal sentirsi affaticato, spaventato o malato; casi questi che aumentano il comportamento di attaccamento.
La teoria dell’attaccamento accetta il primato che viene dato solitamente alla madre come principale fonte di cure ma non c’è nulla nella teoria che suggerisca che i padri non possano egualmente diventare principali figure di attaccamento se capita loro di provvedere in gran parte alla cura del bambino.
La prova migliore della presenza di un legame di attaccamento è l’osservazione della reazione alla separazione. Bowlby identificò la protesta come la risposta primaria provocata nei bambini dalla separazione dei genitori. Pianto, grida, urla, morsi, calci: questi “cattivi” comportamenti sono la reazione normale alla minaccia di un legame di attaccamento e hanno la funzione di cercare di ripararlo e “punendo” chi si prende cura del bambino, di evitare ulteriori separazioni.
Modelli operativi interni
Il bambino in fase di sviluppo costruisce una certa quantità di modelli di se stesso e degli altri basati su pattern ripetuti di esperienze interattive.
Questi “assunti di base” (Beck et al., 1979), “rappresentazioni delle interazioni che sono state generalizzate” (Stern, 1985), “modelli di relazioni di ruoli” e “schemi sé-altro” (Horowitz, 1988), formano modelli rappresentazionali relativamente fissi che il bambino usa per predire il mondo e mettersi in relazione con esso.
Un bambino con un attaccamento sicuro immagazzinerà un modello operativo interno di una persona che si prende cura di lui, amorosa, affidabile e di un sé che è meritevole di amore e di attenzione e questi assunti influiranno su tutte le altre relazioni.
Un bambino con un attaccamento insicuro può vedere il mondo come un posto pericoloso nel quale le altre persone devono essere trattate con grande precauzione e si considererà come un incapace e non meritevole di amore. Questi assunti sono relativamente stabili e duraturi: quelli che si costruiscono nei primi anni di vita sono particolarmente persistenti e non hanno molte probabilità di essere modificati dall’esperienza successiva.
L’attaccamento nella vita adulta
Quando i bambini crescono e cominciano a raggiungere l’adolescenza tollerano periodi sempre maggiori di separazione dai loro genitori. Questo vuole dire che la “fase” di attaccamento è stata superata per essere sostituita dalla “genitalità adulta”?.
Secondo il modello di Bowlby, assolutamente no. A suo parere, l’attaccamento e la dipendenza, sebbene non più evidenti allo stesso modo che nei bambini piccoli, rimangono attivi lungo tutto il ciclo vitale.
Per gli adolescenti la casa dei genitori rimane ancora un importante punto di riferimento e il sistema di attaccamento tornerà a riattivarsi in momenti di minacci, malattia o stanchezza. La turbolenza dell’adolescenza può essere vista come generata dalla complessità del distacco e del nuovo attaccamento che l’adolescente deve portare a termine: svincolarsi dagli attaccamenti genitoriali, tollerare il lutto di questa perdita, proseguire attraverso la fase transizionale dell’attaccamento al gruppo dei coetanei, verso la costituzione d un legame di coppia nella vita adulta.
In conclusione, le madri sicure hanno facilità e prontezza nelle risposte e sono in sintonia con i loro bambini fornendogli una base sicura per le esplorazioni, sono capaci di tenerli e di far fronte ai loro disagi e alla loro aggressività in modo soddisfacente. Esse hanno una visione equilibrata della propria infanzia.
I loro bambini, sicuri da piccoli, crescendo diventano ben adattati socialmente e hanno una capacità realistica di autovalutazione e la sensazione che alla separazione, per quanto sia triste e dolorosa, si può rispondere in modo positivo.
I bambini insicuri, specialmente quelli evitanti, tendono ad avere madri che trovano difficile l’holding (capacità di contenimento) e il contatto fisico che non rispondono ai bisogni del proprio bambino e nono sono ben sintonizzate sui suoi ritmi. I genitori dei bambini insicuri falliscono nel rispondere in modo appropriato alle angosce del proprio bambino, o ignorandolo (evitandolo) o diventando troppo coinvolti, facendosi prendere dal panico, o rimanendoci impantanati (ambivalenti).
Le manifestazioni comportamentali di queste cattive sintonie nella relazione genitore-figlio includono fenomeni come il distogliere lo sguardo, l’autolesionismo (come lo sbattere la testa), il rimanere immobili o il litigare violentemente.
Ingredienti essenziali di un buon genitore
• Sensibilità
• Sintonia
• Capacità di contenimento
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La teoria dell’attaccamento accetta il primato che viene dato solitamente alla madre come principale fonte di cure ma non c’è nulla nella teoria che suggerisca che i padri non possano egualmente diventare principali figure di attaccamento se capita loro di provvedere in gran parte alla cura del bambino.
La prova migliore della presenza di un legame di attaccamento è l’osservazione della reazione alla separazione. Bowlby identificò la protesta come la risposta primaria provocata nei bambini dalla separazione dei genitori. Pianto, grida, urla, morsi, calci: questi “cattivi” comportamenti sono la reazione normale alla minaccia di un legame di attaccamento e hanno la funzione di cercare di ripararlo e “punendo” chi si prende cura del bambino, di evitare ulteriori separazioni.
Modelli operativi interni
Il bambino in fase di sviluppo costruisce una certa quantità di modelli di se stesso e degli altri basati su pattern ripetuti di esperienze interattive.
Questi “assunti di base” (Beck et al., 1979), “rappresentazioni delle interazioni che sono state generalizzate” (Stern, 1985), “modelli di relazioni di ruoli” e “schemi sé-altro” (Horowitz, 1988), formano modelli rappresentazionali relativamente fissi che il bambino usa per predire il mondo e mettersi in relazione con esso.
Un bambino con un attaccamento sicuro immagazzinerà un modello operativo interno di una persona che si prende cura di lui, amorosa, affidabile e di un sé che è meritevole di amore e di attenzione e questi assunti influiranno su tutte le altre relazioni.
Un bambino con un attaccamento insicuro può vedere il mondo come un posto pericoloso nel quale le altre persone devono essere trattate con grande precauzione e si considererà come un incapace e non meritevole di amore. Questi assunti sono relativamente stabili e duraturi: quelli che si costruiscono nei primi anni di vita sono particolarmente persistenti e non hanno molte probabilità di essere modificati dall’esperienza successiva.
L’attaccamento nella vita adulta
Quando i bambini crescono e cominciano a raggiungere l’adolescenza tollerano periodi sempre maggiori di separazione dai loro genitori. Questo vuole dire che la “fase” di attaccamento è stata superata per essere sostituita dalla “genitalità adulta”?.
Secondo il modello di Bowlby, assolutamente no. A suo parere, l’attaccamento e la dipendenza, sebbene non più evidenti allo stesso modo che nei bambini piccoli, rimangono attivi lungo tutto il ciclo vitale.
Per gli adolescenti la casa dei genitori rimane ancora un importante punto di riferimento e il sistema di attaccamento tornerà a riattivarsi in momenti di minacci, malattia o stanchezza. La turbolenza dell’adolescenza può essere vista come generata dalla complessità del distacco e del nuovo attaccamento che l’adolescente deve portare a termine: svincolarsi dagli attaccamenti genitoriali, tollerare il lutto di questa perdita, proseguire attraverso la fase transizionale dell’attaccamento al gruppo dei coetanei, verso la costituzione d un legame di coppia nella vita adulta.
In conclusione, le madri sicure hanno facilità e prontezza nelle risposte e sono in sintonia con i loro bambini fornendogli una base sicura per le esplorazioni, sono capaci di tenerli e di far fronte ai loro disagi e alla loro aggressività in modo soddisfacente. Esse hanno una visione equilibrata della propria infanzia.
I loro bambini, sicuri da piccoli, crescendo diventano ben adattati socialmente e hanno una capacità realistica di autovalutazione e la sensazione che alla separazione, per quanto sia triste e dolorosa, si può rispondere in modo positivo.
I bambini insicuri, specialmente quelli evitanti, tendono ad avere madri che trovano difficile l’holding (capacità di contenimento) e il contatto fisico che non rispondono ai bisogni del proprio bambino e nono sono ben sintonizzate sui suoi ritmi. I genitori dei bambini insicuri falliscono nel rispondere in modo appropriato alle angosce del proprio bambino, o ignorandolo (evitandolo) o diventando troppo coinvolti, facendosi prendere dal panico, o rimanendoci impantanati (ambivalenti).
Le manifestazioni comportamentali di queste cattive sintonie nella relazione genitore-figlio includono fenomeni come il distogliere lo sguardo, l’autolesionismo (come lo sbattere la testa), il rimanere immobili o il litigare violentemente.
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mercoledì 6 ottobre 2010
I 6 stadi dello sviluppo sensomotorio di J. Piaget
J. Piaget considera lo sviluppo cognitivo nella prima infanzia come intelligenza sensomotoria.
Il periodo sensomotorio è il primo di quattro periodi generali nei quali J. Piaget divide lo sviluppo. A sua volta il periodo sensomotorio è diviso in 6 stadi.
Si pensa che la sequenza di stadi sia assolutamente costante o invariante per i bambini di tutto il mondo. Perciò Piaget affermava che non può accadere che uno stadio sia saltato nel passaggio ad uno stadio successivo né può accadere che il passaggio attraverso gli stadi abbia un corso di sviluppo diverso da quello dato. Le conquiste di ciascuno stadio sono cumulative, cioè le abilità acquisite in uno stadio precedente non sono perdute con l’arrivo a nuovi stadi.
Stadio 1 (da 0 a 1 mese)
Alcuni riflessi quali la suzione, i movimenti oculari e i movimenti della mano e del braccio sono destinati a subire cambiamenti significativi durante lo sviluppo in funzione dell’esercizio costante e dell’applicazione ripetuta a oggetti ed eventi esterni.
Piaget attribuiva molta importanza a questi riflessi perché li considerava come i primi mattoni, forniti in modo innato, della crescita cognitiva umana. Egli li concepiva come i primi schemi sensomotori del bambino.
Stadio 2 (da 1 a 4 mesi)
Questo stadio è segnato dalla continua evoluzione degli schemi sensomotori individuali e dalla graduale coordinazione o integrazione di uno schema nell’altro.
Quindi per quanto riguarda gli schemi individuali associati a processi quali succhiare, guardare, ascoltare, vocalizzare e afferrare gli oggetti, ricevono una quantità enorme di pratica quotidiana spontanea. Di conseguenza ciascuno di questi schemi è sottoposto ad una elaborazione evolutiva considerevole durante questi mesi.
Successiva è la progressiva coordinazione o il fatto che ogni schema è messo in relazione ad un altro, per esempio la visione e l’udito cominciano ad essere collegati funzionalmente. Sentire un suono porta l’infante a girare la testa e gli occhi nella direzione della fonte del suono.
Due altre importanti coordinazioni tra schemi che si stabilizzano bene nel secondo stadio sono quelle succhiare-afferrare e vedere-afferrare. Nel rimo caso, il bambino sviluppa la capacità di portare alla bocca e succhiare la mano e qualsiasi cosa la mano abbia afferrato e di afferrare qualsiasi cosa gli sia in qualche modo entrata in bocca.
La coordinazione di visione e prensione permette al bambino di localizzare ed afferrare gli oggetti sotto la guida visiva e reciprocamente di portare davanti agli occhi per ispezionarla visivamente qualsiasi cosa che una mano invisibile abbia toccato e afferrato.
L’evoluzione della coordinazione vedere-afferrare costituisce uno sviluppo notevole perché la capacità di coordinare mano e occhio dimostrerà di essere un mezzo e uno strumento estremamente importante per esplorare l’ambiente del bambino ed apprendere cose su di esso.
Stadio 3 (dai 4 agli 8 mesi)
Al bambino capita di eseguire qualche azione motoria, spesso manuale, che per caso produce dei risultati nell’ambiente non anticipati ma interessanti. Poi il bambino deliziato, continua ad eseguire l’azione ripetutamente, a quanto sembra per il puro piacere di riprodurre e di sperimentare di nuovo il risultato nell’ambiente.
Il bambino può afferrare e scuotere un nuovo giocattolo e quel nuovo giocattolo può rispondere inaspettatamente con un tintinnio, dopodichè è probabile che il bambino in questo stadio si fermi meravigliato, lo scuota di nuovo ma con esitazione, senta il suono di nuovo, lo scuota ancora una volta più velocemente e con maggiore confidenza e poi continui a ripetere l’azione per un periodo di temo considerevole.
Dal terzo stadio il bambino mostra sempre più interesse negli effetti delle sue azioni sugli oggetti e gli eventi prestando molta attenzione a quegli effetti. Gradualmente comincia ad esplorare gli oggetti; egli diviene cognitivamente e socialmente più estroverso nel corso dello sviluppo sensomotorio.
Stadio 4 (dagli 8 ai 12 mesi)
La maggiore novità di questo stadio è la comparsa di comportamenti che sono intenzionali, diretti ad un fine. Le azioni del bambino hanno un significato e sono dirette ad uno scopo e per questa ragione appaiono più intelligenti e più cognitive di quelle degli stadi precedenti.
Nel quarto stadio il bambino esercita intenzionalmente uno schema come mezzo, in modo da rendere possibile l’esercizio di un altro schema, come fine o scopo. Ad esempio può premere la vostra mano (mezzo) per fare in modo che continuate a produrre un interessante effetto sensoriale (fine) che stavate producendo per lui. Egli ha maggiore riguardo nei confronti del mondo esterno.
Stadio 5 (dai 12 ai 18 mesi)
È costituito dall’esplorazione molto attiva, intenzionale, del tipo pro ed errore, delle proprietà reali e delle potenzialità degli oggetti, in gran parte attraverso la ricerca instancabile di modi diversi di agire su di essi. Il bambino ha un approccio sperimentale orientato alla esplorazione e alla scoperta del mondo esterno.
Se gli si presenta un oggetto nuovo lui cercherà attivamente di mettere a nudo le sue proprietà strutturali e funzionali provando diversi schemi di azione e inventando nuove variazioni su vecchi schemi di azione.
Con la sua tendenza estremamente esploratoria e tesa verso l’accomodamento, il bambino del quinto stadio spesso scopre mezzi completamente nuovi per raggiungere vecchi scopi.
Stadio 6 (dai 18 i 24 mesi)
Questo è costituito dalla capacità di rappresentare gli oggetti della propria cognizione per mezzo di simboli e di agire con intelligenza rispetto a questa realtà interiore e simbolizzata invece che rispetto alla realtà esterna, non simbolizzata.
Il bambino del 6 stadio mostra una capacità iniziale di produrre e capire che una cosa (es. una parola) sta per o rappresenta simbolicamente qualche altra cosa (ad es. una classe di oggetti). Inoltre il bambino diventa capace di differenziare mentalmente il simbolo e il suo referente cioè la cosa che il simbolo rappresenta.
Per fare un esempio di questa differenziazione il simbolo potrebbe essere fisicamente molto diverso dal suo oggetto referente eppure essere ancora trattato come una rappresentazione di quell’ oggetto.
Reagire a oggetti di cognizioni interiori generati internamente, decisamente non è un’attività sensomotoria: funzione semeiotica.
Il bambino simbolico del 6 stadio può provare dei modi alternativi interiormente, immaginandoli oppure rappresentandoli a se steso invece di renderli concreti nel comportamento esplicito. Se viene trovato un procedimento efficace in questo modo, è per mezzo del pensiero invece che attraverso l’azione diretta “invenzione di nuovi mezzi attraverso delle combinazioni mentali”.
Anche il gioco del “far finta” compare nel 6 stadio.
L’intelligenza sensomotoria non scompare con la fine della prima infanzia, anzi alcune forme di funzionamento sensomotorio rimangono disponibili per tutta la vita. Tuttavia una volta che la capacità simbolica è emersa, le forme di intelligenza più alte e potenti hanno luogo su un piano diverso.
I bambini hanno più competenza di quanto J. Piaget pensasse ma non è stato ancora proposto un modello alternativo di vasta portata e completamente soddisfacente.
Quasi tutti gli psicologi sono concordi nel sostenere che l’organismo umano funziona secondo i principi generali dell’organizzazione e dell’adattamento. Concordano nel dire che il bambino costruisce attivamente il suo mondo anziché registrare passivamente gli stimoli esterni e che lo sviluppo cognitivo è il prodotto di continue interazioni tra il bambino e l’ambiente.
Sottolineano inoltre l’enorme importanza del contributo dato dalle ricerche empiriche di Piaget alla nostra comprensione dello sviluppo del bambino e questo nonostante facciano rilevare come il bambino sia più malleabile e meno soggetto ai limiti della maturazione di quanto non credesse Piaget.
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Il periodo sensomotorio è il primo di quattro periodi generali nei quali J. Piaget divide lo sviluppo. A sua volta il periodo sensomotorio è diviso in 6 stadi.
Si pensa che la sequenza di stadi sia assolutamente costante o invariante per i bambini di tutto il mondo. Perciò Piaget affermava che non può accadere che uno stadio sia saltato nel passaggio ad uno stadio successivo né può accadere che il passaggio attraverso gli stadi abbia un corso di sviluppo diverso da quello dato. Le conquiste di ciascuno stadio sono cumulative, cioè le abilità acquisite in uno stadio precedente non sono perdute con l’arrivo a nuovi stadi.
Stadio 1 (da 0 a 1 mese)
Alcuni riflessi quali la suzione, i movimenti oculari e i movimenti della mano e del braccio sono destinati a subire cambiamenti significativi durante lo sviluppo in funzione dell’esercizio costante e dell’applicazione ripetuta a oggetti ed eventi esterni.
Piaget attribuiva molta importanza a questi riflessi perché li considerava come i primi mattoni, forniti in modo innato, della crescita cognitiva umana. Egli li concepiva come i primi schemi sensomotori del bambino.
Stadio 2 (da 1 a 4 mesi)
Questo stadio è segnato dalla continua evoluzione degli schemi sensomotori individuali e dalla graduale coordinazione o integrazione di uno schema nell’altro.
Quindi per quanto riguarda gli schemi individuali associati a processi quali succhiare, guardare, ascoltare, vocalizzare e afferrare gli oggetti, ricevono una quantità enorme di pratica quotidiana spontanea. Di conseguenza ciascuno di questi schemi è sottoposto ad una elaborazione evolutiva considerevole durante questi mesi.
Successiva è la progressiva coordinazione o il fatto che ogni schema è messo in relazione ad un altro, per esempio la visione e l’udito cominciano ad essere collegati funzionalmente. Sentire un suono porta l’infante a girare la testa e gli occhi nella direzione della fonte del suono.
Due altre importanti coordinazioni tra schemi che si stabilizzano bene nel secondo stadio sono quelle succhiare-afferrare e vedere-afferrare. Nel rimo caso, il bambino sviluppa la capacità di portare alla bocca e succhiare la mano e qualsiasi cosa la mano abbia afferrato e di afferrare qualsiasi cosa gli sia in qualche modo entrata in bocca.
La coordinazione di visione e prensione permette al bambino di localizzare ed afferrare gli oggetti sotto la guida visiva e reciprocamente di portare davanti agli occhi per ispezionarla visivamente qualsiasi cosa che una mano invisibile abbia toccato e afferrato.
L’evoluzione della coordinazione vedere-afferrare costituisce uno sviluppo notevole perché la capacità di coordinare mano e occhio dimostrerà di essere un mezzo e uno strumento estremamente importante per esplorare l’ambiente del bambino ed apprendere cose su di esso.
Stadio 3 (dai 4 agli 8 mesi)
Al bambino capita di eseguire qualche azione motoria, spesso manuale, che per caso produce dei risultati nell’ambiente non anticipati ma interessanti. Poi il bambino deliziato, continua ad eseguire l’azione ripetutamente, a quanto sembra per il puro piacere di riprodurre e di sperimentare di nuovo il risultato nell’ambiente.
Il bambino può afferrare e scuotere un nuovo giocattolo e quel nuovo giocattolo può rispondere inaspettatamente con un tintinnio, dopodichè è probabile che il bambino in questo stadio si fermi meravigliato, lo scuota di nuovo ma con esitazione, senta il suono di nuovo, lo scuota ancora una volta più velocemente e con maggiore confidenza e poi continui a ripetere l’azione per un periodo di temo considerevole.
Dal terzo stadio il bambino mostra sempre più interesse negli effetti delle sue azioni sugli oggetti e gli eventi prestando molta attenzione a quegli effetti. Gradualmente comincia ad esplorare gli oggetti; egli diviene cognitivamente e socialmente più estroverso nel corso dello sviluppo sensomotorio.
Stadio 4 (dagli 8 ai 12 mesi)
La maggiore novità di questo stadio è la comparsa di comportamenti che sono intenzionali, diretti ad un fine. Le azioni del bambino hanno un significato e sono dirette ad uno scopo e per questa ragione appaiono più intelligenti e più cognitive di quelle degli stadi precedenti.
Nel quarto stadio il bambino esercita intenzionalmente uno schema come mezzo, in modo da rendere possibile l’esercizio di un altro schema, come fine o scopo. Ad esempio può premere la vostra mano (mezzo) per fare in modo che continuate a produrre un interessante effetto sensoriale (fine) che stavate producendo per lui. Egli ha maggiore riguardo nei confronti del mondo esterno.
Stadio 5 (dai 12 ai 18 mesi)
È costituito dall’esplorazione molto attiva, intenzionale, del tipo pro ed errore, delle proprietà reali e delle potenzialità degli oggetti, in gran parte attraverso la ricerca instancabile di modi diversi di agire su di essi. Il bambino ha un approccio sperimentale orientato alla esplorazione e alla scoperta del mondo esterno.
Se gli si presenta un oggetto nuovo lui cercherà attivamente di mettere a nudo le sue proprietà strutturali e funzionali provando diversi schemi di azione e inventando nuove variazioni su vecchi schemi di azione.
Con la sua tendenza estremamente esploratoria e tesa verso l’accomodamento, il bambino del quinto stadio spesso scopre mezzi completamente nuovi per raggiungere vecchi scopi.
Stadio 6 (dai 18 i 24 mesi)
Questo è costituito dalla capacità di rappresentare gli oggetti della propria cognizione per mezzo di simboli e di agire con intelligenza rispetto a questa realtà interiore e simbolizzata invece che rispetto alla realtà esterna, non simbolizzata.
Il bambino del 6 stadio mostra una capacità iniziale di produrre e capire che una cosa (es. una parola) sta per o rappresenta simbolicamente qualche altra cosa (ad es. una classe di oggetti). Inoltre il bambino diventa capace di differenziare mentalmente il simbolo e il suo referente cioè la cosa che il simbolo rappresenta.
Per fare un esempio di questa differenziazione il simbolo potrebbe essere fisicamente molto diverso dal suo oggetto referente eppure essere ancora trattato come una rappresentazione di quell’ oggetto.
Reagire a oggetti di cognizioni interiori generati internamente, decisamente non è un’attività sensomotoria: funzione semeiotica.
Il bambino simbolico del 6 stadio può provare dei modi alternativi interiormente, immaginandoli oppure rappresentandoli a se steso invece di renderli concreti nel comportamento esplicito. Se viene trovato un procedimento efficace in questo modo, è per mezzo del pensiero invece che attraverso l’azione diretta “invenzione di nuovi mezzi attraverso delle combinazioni mentali”.
Anche il gioco del “far finta” compare nel 6 stadio.
L’intelligenza sensomotoria non scompare con la fine della prima infanzia, anzi alcune forme di funzionamento sensomotorio rimangono disponibili per tutta la vita. Tuttavia una volta che la capacità simbolica è emersa, le forme di intelligenza più alte e potenti hanno luogo su un piano diverso.
I bambini hanno più competenza di quanto J. Piaget pensasse ma non è stato ancora proposto un modello alternativo di vasta portata e completamente soddisfacente.
Quasi tutti gli psicologi sono concordi nel sostenere che l’organismo umano funziona secondo i principi generali dell’organizzazione e dell’adattamento. Concordano nel dire che il bambino costruisce attivamente il suo mondo anziché registrare passivamente gli stimoli esterni e che lo sviluppo cognitivo è il prodotto di continue interazioni tra il bambino e l’ambiente.
Sottolineano inoltre l’enorme importanza del contributo dato dalle ricerche empiriche di Piaget alla nostra comprensione dello sviluppo del bambino e questo nonostante facciano rilevare come il bambino sia più malleabile e meno soggetto ai limiti della maturazione di quanto non credesse Piaget.
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Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma
giovedì 9 settembre 2010
Lo sviluppo cognitivo nella prima infanzia come intelligenza sensomotoria: J. Piaget
Secondo J. Piaget ciò che l’infante mostra in modo sempre più chiaro e meno ambiguo mano mano che cresce è la capacità di poter fare azioni sensoriali e motorie organizzate, con un “apparenza di intelligenza” cioè esibisce un funzionamento intellettuale completamente pratico, legato all’azione.
L’infante “sa” nel senso che riconosce o anticipa oggetti o eventi familiari che vede spesso e “pensa” nel senso che si comporta verso di essi con la bocca, le mani, gli occhi ed altri strumenti sensomotori in modo predicibile, organizzato e che mostra adattamento.
L’autore parla di “schema sensomotorio” che ha a che fare con una specifica classe di sequenza di azioni sensomotorie che il bambino compie ripetutamente e abitualmente, normalmente in risposta a classi particolari di oggetti e di azioni. Lo schema è la capacità cognitiva sottostante che rende possibili tali configurazioni organizzate di comportamenti.
Per esempio, del lattante che automaticamente succhia qualsiasi cosa passi per la sua bocca si direbbe che possiede uno schema di suzione, cioè che possiede una capacità duratura ed una disposizione ad eseguire una specifica classe di sequenze motorie (movimenti organizzati per la suzione) in risposta ad una particolare classe di eventi (l’inserzione di oggetti che possono essere succhiati).Una proprietà molto importante degli schemi consiste nel fatto che possono essere combinati o coordinati per formare delle unità più grandi di intelligenza sensomotoria. Mano mano gli schemi elementari vengono gradualmente generalizzati, differenziati e soprattutto coordinati e integrati tra loro in vari modi complessi, il comportamento del bambino comincia a sembrare sempre più “intelligente” e “cognitivo” ed in modo sempre meno ambiguo.
Secondo J. Piaget l’infante è motivato a continuare ad agire nei riguardi di un evento finché non ne ha compreso il significato, cioè finché ciò che era inizialmente incomprensibile è stato reso comprensibile. Ad esempio il bambino esplora e fa esperimenti finché non scopre la causa dell’inatteso rumore forte, mostra segni di estremo piacere e soddisfazione quando la scopre e ripete poi continuamente l’azione di battere con grande entusiasmo. Per J. Piaget questo è un esempio della natura della motivazione cognitiva e del cambiamento cognitivo.
Il bambino si crea nuove esperienze per mezzo delle sue stesse azioni nell’ambiente; alcune di queste esperienze mostrano di essere particolarmente interessanti perché vanno al di là di ciò che essa capisce al momento. Esso poi agisce ulteriormente verso queste nuove esperienze, variando i suoi schemi nello sforzo di arrivare ad una nuova comprensione.
I comportamenti che portano a nuove conoscenze è probabile che vengano ripetuti attraverso azioni, così il sistema cognitivo si avvia verso nuovi e migliori livelli di comprensione.
L’idea è che vi sia una motivazione intrinseca al sistema cognitivo e non proveniente solo da impulsi quali la fame o il dolore.
Il periodo sensomotorio è il primo di quattro periodi generali nei quali J. Piaget divide lo sviluppo. A sua volta il periodo sensomotorio è diviso in 6 stadi.
Si pensa che la sequenza di stadi sia assolutamente costante o invariante per i bambini di tutto il mondo. Perciò J. Piaget affermava che non può accadere che uno stadio sia saltato nel passaggio ad uno stadio successivo né può accadere che il passaggio attraverso gli stadi abbia un corso di sviluppo diverso da quello dato. Le conquiste di ciascuno stadio sono cumulative, cioè le abilità acquisite in uno stadio precedente non sono perdute con l’arrivo a nuovi stadi.
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L’infante “sa” nel senso che riconosce o anticipa oggetti o eventi familiari che vede spesso e “pensa” nel senso che si comporta verso di essi con la bocca, le mani, gli occhi ed altri strumenti sensomotori in modo predicibile, organizzato e che mostra adattamento.
L’autore parla di “schema sensomotorio” che ha a che fare con una specifica classe di sequenza di azioni sensomotorie che il bambino compie ripetutamente e abitualmente, normalmente in risposta a classi particolari di oggetti e di azioni. Lo schema è la capacità cognitiva sottostante che rende possibili tali configurazioni organizzate di comportamenti.
Per esempio, del lattante che automaticamente succhia qualsiasi cosa passi per la sua bocca si direbbe che possiede uno schema di suzione, cioè che possiede una capacità duratura ed una disposizione ad eseguire una specifica classe di sequenze motorie (movimenti organizzati per la suzione) in risposta ad una particolare classe di eventi (l’inserzione di oggetti che possono essere succhiati).Una proprietà molto importante degli schemi consiste nel fatto che possono essere combinati o coordinati per formare delle unità più grandi di intelligenza sensomotoria. Mano mano gli schemi elementari vengono gradualmente generalizzati, differenziati e soprattutto coordinati e integrati tra loro in vari modi complessi, il comportamento del bambino comincia a sembrare sempre più “intelligente” e “cognitivo” ed in modo sempre meno ambiguo.
Secondo J. Piaget l’infante è motivato a continuare ad agire nei riguardi di un evento finché non ne ha compreso il significato, cioè finché ciò che era inizialmente incomprensibile è stato reso comprensibile. Ad esempio il bambino esplora e fa esperimenti finché non scopre la causa dell’inatteso rumore forte, mostra segni di estremo piacere e soddisfazione quando la scopre e ripete poi continuamente l’azione di battere con grande entusiasmo. Per J. Piaget questo è un esempio della natura della motivazione cognitiva e del cambiamento cognitivo.
Il bambino si crea nuove esperienze per mezzo delle sue stesse azioni nell’ambiente; alcune di queste esperienze mostrano di essere particolarmente interessanti perché vanno al di là di ciò che essa capisce al momento. Esso poi agisce ulteriormente verso queste nuove esperienze, variando i suoi schemi nello sforzo di arrivare ad una nuova comprensione.
I comportamenti che portano a nuove conoscenze è probabile che vengano ripetuti attraverso azioni, così il sistema cognitivo si avvia verso nuovi e migliori livelli di comprensione.
L’idea è che vi sia una motivazione intrinseca al sistema cognitivo e non proveniente solo da impulsi quali la fame o il dolore.
Il periodo sensomotorio è il primo di quattro periodi generali nei quali J. Piaget divide lo sviluppo. A sua volta il periodo sensomotorio è diviso in 6 stadi.
Si pensa che la sequenza di stadi sia assolutamente costante o invariante per i bambini di tutto il mondo. Perciò J. Piaget affermava che non può accadere che uno stadio sia saltato nel passaggio ad uno stadio successivo né può accadere che il passaggio attraverso gli stadi abbia un corso di sviluppo diverso da quello dato. Le conquiste di ciascuno stadio sono cumulative, cioè le abilità acquisite in uno stadio precedente non sono perdute con l’arrivo a nuovi stadi.
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giovedì 15 luglio 2010
Ontogenesi delle emozioni
Un contributo importante alla conoscenza dello sviluppo delle emozioni, della paura in particolare, è quello fornito dalla scuola comportamentista che sostiene che il dolore gioca un ruolo importante, attraverso il meccanismo dell’apprendimento, per l’acquisizione della paura in situazioni pericolose: il bambino impara ad avere paura del fuoco, per esempio, perché si è scottato.
Dall’altra, l’apprendimento gioca un ruolo fondamentale anche nella genesi della paura per stimoli originariamente neutrali, cioè nelle fobie: secondo Watson è possibile creare risposte condizionate di paura a stimoli neutri, associandoli a stimoli spiacevoli.
Egli creò la paura per un topolino bianco in un bambino di 11 mesi (che in precedenza non temeva affatto tale animale), associando alla presenza dell’animale un improvviso forte rumore.
Successivamente il bambino aveva paura non solo del topolino bianco ma anche di una pelliccia bianca o di una maschera di Babbo Natale, tutti oggetti simili a quello di cui era stato condizionato ad avere paura, attraverso un meccanismo che è stato chiamato la generalizzazione.
La generalizzazione è alla base di gran parte delle emozioni provate dagli adulti; queste ultime, sono spesso scatenate da stimoli analoghi a quelli con cui essi erano venuti a contatto precedentemente e che avevano suscitato una risposta emotiva.
Watson (1924) identificò tre stati emotivi già presenti all’epoca neonatale:
La paura (espressa con il pianto, con la distorsione dei lineamenti del viso, tremore, arresto del respiro e mani serrate a pugno), in seguito a stimoli come la caduta o un rumore improvviso;
L’ira (espressa con grida, arresti del respiro, rossori, movimenti delle mani), quando il bambino viene tenuto forzatamente immobilizzato;
L’amore (atteggiamento sereno, sorridente), se gli si accarezzano le labbra.
Sherman (1927) sostiene che nel neonato esiste una sola ed unica reazione emotiva che potrebbe essere definita come “eccitazione generale” e che le reazioni emotive più differenziate, che generalmente vengono attribuite al neonato, sono in realtà il frutto della proiezione da parte dell’adulto sul neonato di quelle che sarebbero state le sue emozioni.
Hebb D. O. (1958) sostiene che lo sviluppo emotivo non è più solo la conseguenza di associazioni arbitrarie ma tra i suoi fattori comprendono anche i processi cognitivi e percettivi. Il fatto che uno stimolo indifferente dal punto di vista emotivo in una certa fase dello sviluppo divenga significativo in una fase successiva, è dovuta al cambiamento del modo con il quale viene percepito, decifrato e classificato.
Bridges (1932) è stata la prima autrice a studiare la differenziazione dei diversi stati emotivi a partire dallo stato motivo indifferenziato iniziale: da una parte come effetto della maturazione delle strutture nervose e dall’altra come effetto dell’apprendimento.Tale ricerca ha messo in evidenza come quasi tutti gli schemi di comportamento emotivo ritrovati nell’adulto sono già presenti all’età di 2 anni. L’evoluzione successiva consiste in modificazioni sia del tipo oltre che del numero degli oggetti o situazioni capaci di suscitare emozioni.
L’autrice ha osservato che all’età di 2 anni sono presenti la maggior parte degli schemi comportamentali emotivi che costituiscono la gamma espressiva reperibile nei soggetti adulti.
Ha conseguentemente aggiunto che: nei bambini allevati in ambienti normalmente stimolanti lo sviluppo delle emozioni, rilevabili attraverso il comportamento, segue un ordine ben preciso dal quale si può dedurre che certe configurazioni stimolanti sono attive solo ad una certa fase dello sviluppo e di maturazione (fisiologica e cognitiva).
Non si deve però ritenere che l’espressione della ricchezza strutturale del comportamento emotivo sia indipendente dal comportamento o estranea alle catene di condizionamenti ambientali.
Gli aspetti cognitivi di un’emozione variano con l’età, l’esperienza e il contesto.
Nelle prime settimane di vita il bambino ha una consapevolezza limitata ai cambiamenti degli stimoli interni ed esterni, con una componente cognitiva modesta, se non inesistente.
A questo livello le espressioni emotive sono essenziali per la comunicazione dei bisogni immediati del bambino a chi si prende cura di lui e per stabilire il rapporto tra madre e bambino.
Nella primissima infanzia la tristezza è l’emozione “negativa” più frequentemente esperita.
Il grido di dolore essenziale per allarmare che si prende cura del bambino, forma la base per una prima esperienza dell’esistenza di una precisa relazione fra il proprio comportamento e le sue conseguenze. In concreto la manifestazione espressiva di dolore è seguita dall’assistenza e dal sollievo. Questa è una delle prime situazioni che contribuiscono allo sviluppo di una capacità crescente di discriminazione fra sé e l’altro da sé. Al cominciare del terzo mese del primo anno di vita, l’attenzione del bambino si dirige verso aspetti percettivi separati e distinguibili delle persone e degli oggetti che formano il suo ambiente. Compare il sorriso. A questa epoca il bambino piccolo comincia a sorridere in risposta a qualsiasi configurazione percettiva simile ad un volto e tendente ad orientarsi e a spingersi verso di essa.
Il sorriso differenzia un’esperienza positiva particolare, il rapporto con un altro essere umano, da altri eventi positivi e con esso si ha una prima rudimentale distinzione fra l’interazione con il mondo delle cose e quella con il mondo delle persone e soprattutto si ha la prova dell’esistere di una esperienza positiva che non è più funzione dello stato interno del bambino ma delle qualità del mondo esterno da lui percepite.
Il terzo livello di coscienza è caratterizzato dallo svilupparsi dei processi cognitivi. Il bambino comincia ad essere in grado di considerare se stesso come oggetto. Una volta che l’estraneo si rende ben discriminabile dagli individui familiari (intorno al primo anno), si ha il cessare della risposta indiscriminata del sorriso di fronte a qualsiasi volto umano e compare di fronte all’estraneo, la risposta della timidezza e della paura.
Possiamo concludere dicendo che uno stimolo dato può suscitare delle emozioni diverse in relazione al livello di sviluppo percettivo, cognitivo, motorio ed affettivo del bambino e che la stessa emozione può presentarsi di fronte a dati percettivi ed esperienze differenti, in relazione al grado di integrazione cognitiva della realtà, cioè la significato che assumono per il soggetto gli elementi che la contraddistinguono.
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Dall’altra, l’apprendimento gioca un ruolo fondamentale anche nella genesi della paura per stimoli originariamente neutrali, cioè nelle fobie: secondo Watson è possibile creare risposte condizionate di paura a stimoli neutri, associandoli a stimoli spiacevoli.
Egli creò la paura per un topolino bianco in un bambino di 11 mesi (che in precedenza non temeva affatto tale animale), associando alla presenza dell’animale un improvviso forte rumore.
Successivamente il bambino aveva paura non solo del topolino bianco ma anche di una pelliccia bianca o di una maschera di Babbo Natale, tutti oggetti simili a quello di cui era stato condizionato ad avere paura, attraverso un meccanismo che è stato chiamato la generalizzazione.
La generalizzazione è alla base di gran parte delle emozioni provate dagli adulti; queste ultime, sono spesso scatenate da stimoli analoghi a quelli con cui essi erano venuti a contatto precedentemente e che avevano suscitato una risposta emotiva.
Watson (1924) identificò tre stati emotivi già presenti all’epoca neonatale:
La paura (espressa con il pianto, con la distorsione dei lineamenti del viso, tremore, arresto del respiro e mani serrate a pugno), in seguito a stimoli come la caduta o un rumore improvviso;
L’ira (espressa con grida, arresti del respiro, rossori, movimenti delle mani), quando il bambino viene tenuto forzatamente immobilizzato;
L’amore (atteggiamento sereno, sorridente), se gli si accarezzano le labbra.
Sherman (1927) sostiene che nel neonato esiste una sola ed unica reazione emotiva che potrebbe essere definita come “eccitazione generale” e che le reazioni emotive più differenziate, che generalmente vengono attribuite al neonato, sono in realtà il frutto della proiezione da parte dell’adulto sul neonato di quelle che sarebbero state le sue emozioni.
Hebb D. O. (1958) sostiene che lo sviluppo emotivo non è più solo la conseguenza di associazioni arbitrarie ma tra i suoi fattori comprendono anche i processi cognitivi e percettivi. Il fatto che uno stimolo indifferente dal punto di vista emotivo in una certa fase dello sviluppo divenga significativo in una fase successiva, è dovuta al cambiamento del modo con il quale viene percepito, decifrato e classificato.
Bridges (1932) è stata la prima autrice a studiare la differenziazione dei diversi stati emotivi a partire dallo stato motivo indifferenziato iniziale: da una parte come effetto della maturazione delle strutture nervose e dall’altra come effetto dell’apprendimento.Tale ricerca ha messo in evidenza come quasi tutti gli schemi di comportamento emotivo ritrovati nell’adulto sono già presenti all’età di 2 anni. L’evoluzione successiva consiste in modificazioni sia del tipo oltre che del numero degli oggetti o situazioni capaci di suscitare emozioni.
L’autrice ha osservato che all’età di 2 anni sono presenti la maggior parte degli schemi comportamentali emotivi che costituiscono la gamma espressiva reperibile nei soggetti adulti.
Ha conseguentemente aggiunto che: nei bambini allevati in ambienti normalmente stimolanti lo sviluppo delle emozioni, rilevabili attraverso il comportamento, segue un ordine ben preciso dal quale si può dedurre che certe configurazioni stimolanti sono attive solo ad una certa fase dello sviluppo e di maturazione (fisiologica e cognitiva).
Non si deve però ritenere che l’espressione della ricchezza strutturale del comportamento emotivo sia indipendente dal comportamento o estranea alle catene di condizionamenti ambientali.
Gli aspetti cognitivi di un’emozione variano con l’età, l’esperienza e il contesto.
Nelle prime settimane di vita il bambino ha una consapevolezza limitata ai cambiamenti degli stimoli interni ed esterni, con una componente cognitiva modesta, se non inesistente.
A questo livello le espressioni emotive sono essenziali per la comunicazione dei bisogni immediati del bambino a chi si prende cura di lui e per stabilire il rapporto tra madre e bambino.
Nella primissima infanzia la tristezza è l’emozione “negativa” più frequentemente esperita.
Il grido di dolore essenziale per allarmare che si prende cura del bambino, forma la base per una prima esperienza dell’esistenza di una precisa relazione fra il proprio comportamento e le sue conseguenze. In concreto la manifestazione espressiva di dolore è seguita dall’assistenza e dal sollievo. Questa è una delle prime situazioni che contribuiscono allo sviluppo di una capacità crescente di discriminazione fra sé e l’altro da sé. Al cominciare del terzo mese del primo anno di vita, l’attenzione del bambino si dirige verso aspetti percettivi separati e distinguibili delle persone e degli oggetti che formano il suo ambiente. Compare il sorriso. A questa epoca il bambino piccolo comincia a sorridere in risposta a qualsiasi configurazione percettiva simile ad un volto e tendente ad orientarsi e a spingersi verso di essa.
Il sorriso differenzia un’esperienza positiva particolare, il rapporto con un altro essere umano, da altri eventi positivi e con esso si ha una prima rudimentale distinzione fra l’interazione con il mondo delle cose e quella con il mondo delle persone e soprattutto si ha la prova dell’esistere di una esperienza positiva che non è più funzione dello stato interno del bambino ma delle qualità del mondo esterno da lui percepite.
Il terzo livello di coscienza è caratterizzato dallo svilupparsi dei processi cognitivi. Il bambino comincia ad essere in grado di considerare se stesso come oggetto. Una volta che l’estraneo si rende ben discriminabile dagli individui familiari (intorno al primo anno), si ha il cessare della risposta indiscriminata del sorriso di fronte a qualsiasi volto umano e compare di fronte all’estraneo, la risposta della timidezza e della paura.
Possiamo concludere dicendo che uno stimolo dato può suscitare delle emozioni diverse in relazione al livello di sviluppo percettivo, cognitivo, motorio ed affettivo del bambino e che la stessa emozione può presentarsi di fronte a dati percettivi ed esperienze differenti, in relazione al grado di integrazione cognitiva della realtà, cioè la significato che assumono per il soggetto gli elementi che la contraddistinguono.
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