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venerdì 2 novembre 2007

Il ciclo di vita della famiglia

La famiglia è un sistema vivente, il cui sviluppo avviene per “stadi” all’interno della dimensione tempo: essa passa attraverso una serie di “epoche” , ognuna consiste in un “periodo di transizione”.
Durante le transizioni si verificano profonde trasformazioni psicologiche e a livello strutturale.
Nel corso del suo ciclo di vita, ogni gruppo familiare passa attraverso una serie di stadi che richiedono dei cambiamenti di ruolo intrafamiliari, dall’altra parte il coinvolgimento dei singoli membri in altri sistemi sociali (scuola, mondo del lavoro etc..) fa si che ogni soggetto, di fronte a determinati “passaggi” debba affrontare dei cambiamenti del proprio ruolo, proprio perché tale fase lo richiede.
Le sei fasi del ciclo vitale secondo Carter e Mc Goldrick sono:
1. la fase antecedente la formazione della famiglia
2. la fase iniziale di formazione della famiglia (il momento di formazione della coppia per Minuchin)
3. lo stadio con bambini in giovane età
4. lo stadio in cui i figli hanno lasciato la scuola e sono adolescenti, alcuni lavorano e altri no
5. uno stadio più avanzato della vita della famiglia in cui i figli sono adulti e si distaccano
6. la famiglia nella fase terminale, quella del pensionamento e della vecchiaia

1. Nella fase precedente la formazione della famiglia, è indispensabile il “distacco emotivo” del giovane dal gruppo di origine e ciò si concretizzerà attraverso la differenziazione e definizione del proprio sé rispetto ai familiari, nell’ambito del lavoro e delle relazioni con i pari.
2. Nel secondo momento, quello della coppia da poco sposata, un lavoro positivo di ristrutturazione, deve portare all’organizzazione del sistema coniugale e si devono “ridefinire” le relazioni con le famiglie estese e con i gruppi di appartenenza dei coniugi.
Si può verificare che in alcune famiglie, uno o entrambe i membri della coppia non hanno rielaborato in modo costruttivo, il distacco dalla propria famiglia di origine (scarsa differenziazione), per cui risulta limitata la capacità di realizzare un efficace coinvolgimento nel nuovo gruppo familiare, e da qui possono sorgere problemi all’interno della nuova coppia.
3. Nel terzo stadio, quello della famiglia con bambini piccoli, il processo emozionale centrale è l’accettazione di questi come nuovi membri del sistema. In altri termini, vuole dire: la formazione del sottosistema genitoriale, il riassestamento di quello coniugale per fare spazio ai figli e la riformulazione con la famiglia trigenerazionale, entro la quale andranno “rinegoziati” i ruoli dei genitori e nonni.
4. Nella famiglia con adolescenti, deve essere aumentata la flessibilità dei confini all’interno della famiglia, per permettere l’indipendenza dei giovani. Se ciò avviene, l’adolescente si sentirà libero di entrare e uscire dal sistema famiglia senza nessun tipo di condizionamento o di costrizione.
5. Nel quinto stadio, quello dei figli adulti, il processo emozionale centrale sarà l’accettazione di un numero sempre maggiore di movimenti in uscita da e di entrata nel sistema: in pratica ciò comporterà nuovi interessi entro il sottosistema coniugale degli adulti, lo sviluppo di relazioni alla pari tra genitori e figli adulti e la ridefinizione di relazioni per includere nipoti e generi/nuore.
6. Il sesto momento, quello dello slittamento dei ruoli generazionali, del mantenimento del funzionamento di coppia, del riconoscimento di un ruolo più centrale alle generazioni di mezzo, i figli, da parte dei quali ci sarà supporto delle generazioni più anziane senza però invadere i loro spazi.

Quello che intendo sottolineare, riguardo le fasi di vita di ogni famiglia, è che è indispensabile avere la flessibilità di cambiare i ruoli dei singoli membri e la flessibilità di cambiare la “struttura” della famiglia per arrivare ad un nuovo equilibrio che sappia fare fronte davanti al “cambiamento” (Minuchin S., 1976, Famiglie e Terapia della Famiglia) .
In tutto ciò però è fondamentale che ogni singolo membro abbia superato con successo la fase della “differenziazione” dalla famiglia di origine. Differenziazione nel senso di “distacco emotivo”, il che non vuole dire “taglio” ma la consapevolezza che posso formare una nuova famiglia o coppia senza sentirmi limitato o costretto nei confronti della mia famiglia di origine. Senza provare sensi di colpa o sentire che sono in “debito” ( Boszormenyi-Nagy Lealtà Invisibili,1988) nei loro confronti, perché ciò non mi permetterebbe di essere libero, nel senso di “differenziato” ( Bowen M., 1979, Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare intergenerazionale).

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domenica 7 ottobre 2007

Lo Shopping Compulsivo

Lo shopping compulsivo

Lo shopping è un’attività che tutti noi pratichiamo, spesso anche per concedersi un momento di autogratificazione. E’ normale chiedersi, a questo punto, quando tale comportamento arriva ad assumere caratteristiche patologiche. Black, professore di psichiatria alla Scuola di Medicina di Iowa, sostiene che lo shopping diventa problematico quando invalida la vita sociale, relazionale, il matrimonio ed il benessere finanziario del soggetto (Ethridge, 2002).
Una delle caratteristiche più importanti della sindrome da shopping è quella di comprendere diverse forme di disagio in un disturbo complesso, che è sempre stato difficile classificare nell’ambito dei disagi della mente.
Lo shopping compulsivo rappresenta, infatti, un disturbo che implica tre caratteristiche psicopatologiche distinte, presenti spesso contemporaneamente:
1. controllo deficitario dell’impulso
2. ideazione ossessiva
3. dipendenza da un’attività
L’esistenza di un deficit nel controllo è testimoniata dall’impulso a comprare vissuto in modo dirompente ed irresistibile. Questa incontrollabile spinta all’acquisto, presente negli shopper compulsivi, è stata definita “buying impulse" e viene descritta come una pervasiva tendenza distruttiva ed eccessiva, che crea un bisogno urgente che preme per essere soddisfatto. Tale caratteristica rende questo comportamento per alcuni aspetti simile ad altre manifestazioni di scarso controllo dei propri istinti, come il gioco d’azzardo patologico e la cleptomania. La ripetitività dei comportamenti di acquisto e la ciclicità delle crisi hanno portato in risalto anche il carattere ossessivo del disturbo che sembra aumentare, come accade per altre problematiche di tipo ossessivo, in corrispondenza delle situazioni di stress. Ma la caratteristica che senza dubbio appare spesso più difficile da sradicare concerne la dipendenza dall’attività di acquisto che si instaura in questo tipo di comportamento e che ha portato a parlare anche di "addictive buying” ovvero di dipendenza dagli acquisti. In proposito in letteratura sono state descritte delle vere e proprie "crisi di astinenza" concomitanti alla sospensione temporanea dell’attività di acquisto.
Lo shopping compulsivo, in effetti, presenta molte caratteristiche simili alla dipendenza da sostanze: la tolleranza porta i soggetti ad incrementare progressivamente tempo e denaro speso negli acquisti, così come i tossicodipendenti devono aumentare la dose di assunzione della sostanza per ottenere gli effetti desiderati. Il craving, l’incapacità di controllare l’impulso a mettere in atto il comportamento è presente in entrambe le patologie, in particolare nella dipendenza dagli acquisti esso assume le caratteristiche della compulsione, intesa come alleviazione di un sentimento spiacevole. L’astinenza produce un grande malessere nello shopper compulsivo che, per qualche motivo, si trovi impossibilitato a fare acquisti.

McElroy (1994) è stata una delle prime autrici ad occuparsi dei criteri diagnostici dello shopping compulsivo e ha indicato i seguenti criteri per effettuare tale diagnosi:

A. La preoccupazione, l’impulso o il comportamento del comprare non adattivi come indicato da uno dei seguenti elementi:
1. frequente preoccupazione o impulso a comprare, esperiti come irresistibili, intrusivi o insensati;
2. comprare frequentemente al di sopra delle proprie possibilità, spesso oggetti inutili (o di cui non si ha bisogno), per un periodo di tempo più lungo di quello stabilito.

B. La preoccupazione, l’impulso o l’atto del comprare causano stress marcato, fanno consumare tempo, interferiscono significativamente con il funzionamento sociale e lavorativo o determinano problemi finanziari (indebitamento o bancarotta).

C. Il comprare in maniera eccessiva non si presenta esclusivamente durante i periodi di mania o ipomania.

La prevalenza di questo disturbo viene stimata all’80% nel sesso femminile, specialmente di giovane età. Prima del comportamento compulsivo è frequente la presenza di stati d’ira, frustrazione, tristezza e solitudine che vengono sostituiti da una sensazione di onnipotenza, euforia e persino eccitazione sessuale durante l’acquisto. Dopo di esso si avverte un forte calo di tensione e una sensazione di forte gratificazione, anche se di breve durata in quanto repentinamente sopraggiungono profondi sensi di colpa e l’intensa vergogna per il proprio comportamento che provocano profonde sofferenze e notevoli danni all’autostima.
Per quanto riguarda la tipologia dei prodotti prediletti dai “compulsive shoppers” le donne sembrano più predisposte all’acquisto di oggetti che aumentino e migliorino il loro aspetto fisico e, quindi, il loro potere seduttivo quali: scarpe, vestiti, borse, profumi e gioielli. Come si può notare gli oggetti summenzionati sono tutti strumenti che rientrano nell’immaginario collettivo di bellezza o cura dell’aspetto. Questo dato è di fondamentale importanza perché fornisce indicazioni molto utili sulle cause ipotetiche dello shopping compulsivo. Una delle cause riscontrate da tutti gli autori che hanno trattato lo shopping compulsivo è il basso livello di autostima che queste persone cercano di colmare fagocitando oggetti come per riempire il vuoto esperito. L’attrazione per questo genere di articoli da parte delle donne può essere correlato al tentativo di migliorare il proprio livello di autostima attraverso un miglioramento della propria immagine ma, chiaramente, le cause sottostanti la dipendenza da shopping hanno radici più profonde che esulano dal semplice aspetto esteriore. Per esemplificare questo concetto riportiamo un caso clinico.
Gli uomini, invece, prediligono simboli di potere e prestigio, come telefonini, computer, attrezzi sportivi, etc. Gli oggetti acquistati sono in ogni caso inutili e spesso vengono regalati o buttati via, o addirittura nascosti in un angolo della casa, lontano dalla vista del soggetto e soprattutto dei familiari, che in genere sono all’oscuro del problema. Anche nel caso degli uomini affetti da dipendenza da shopping uno dei problemi e delle cause più frequenti risiede nel basso livello di autostima riferito dai soggetti ma, come si nota dalla tipologia di oggetti diversa, rispetto a quella delle donne, il tentativo di apparire migliori ai propri e altrui occhi sfocia nell’acquisto di status simbol che rappresentino il potere e il progresso.


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martedì 4 settembre 2007

Il Gioco d'Azzardo Patologico

Il Gioco d’Azzardo Patologico

Il DSM già dal 1980 riconosce il gambling compulsivo come patologia psichiatrica, includendolo nella categoria dei “disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove”. Questi che seguono sono i criteri diagnostici revisionati nell’edizione IV del DSM del 1996:

Persistente e ricorrente comportamento di gioco d’azzardo maladattivo, come indicato da cinque (o più) dei seguenti:

1. è eccessivamente assorbito dal gioco d’azzardo (per es., è eccessivamente assorbito
nel rivivere esperienze passate di gioco d’azzardo,nel soppesare o programmare la
successiva avventura,o nel pensare ai modi per procurarsi denaro con cui giocare)
a. ha bisogno di giocare d’azzardo con quantità crescenti di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata
b. ha ripetutamente tentato senza successo di controllare,ridurre,o interrompere il gioco d’azzardo
c. È irrequieto o irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo
d. gioca d’azzardo per sfuggire i problemi o per alleviare un umore disforico (per es. sentimenti di onnipotenza,colpa,ansia,depressione)
e. dopo aver perso al gioco,spesso torna un altro giorno per giocare ancora (rincorrendo le proprie perdite)
f. mente ai membri della propria famiglia ,al terapeuta, o ad altri per occultare l’entità del proprio coinvolgimento nel gioco d’azzardo
g. ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa,il lavoro oppure opportunità scolastiche o di carriera per il gioco d’azzardo
h. fa affidamento su altri per reperire il denaro per alleviare una situazione finanziaria disperata causata dal gioco d’azzardo
i. il comportamento di gioco d’azzardo non è meglio attribuibile ad un Episodio
Maniacale.


La carriera del giocatore
Custer ha condotto delle ricerche sul tema e avvalendosi del contributo dei G.A. ha messo a punto uno schema estremamente esemplificativo in cui si sottolinea la progressività della dipendenza dal gioco; vi è un processo costituito da tre fasi discendenti che culminano nella fase della perdita della speranza, e da tre fasi ascendenti che riguardano la riabilitazione terapeutica :

A)Fase vincente:
1) gioco occasionale. Si gioca soprattutto per divertirsi e passare il tempo;
2) vincite frequenti;
3) eccitazione legata al gioco;
4) gioco sempre più frequente;
5) aumenta l’ammontare delle scommesse;
6) avviene una grossa vincita.


B) Fase perdente :
1) gioco solitario;
2) episodi di perdite solitarie;
3) pensieri costanti relativi al gioco;
4) vi sono le prime coperture e menzogne;
5) non si riesce a smettere di giocare;
6) il giocatore diventa irritabile, agitato e si chiude in se stesso;
7) la vita familiare è infelice;
8) richiesta di forti prestiti
9) incapacità di risarcire i debiti contratti.

C) Fase della disperazione :
1) marcato aumento di tempo e denaro dedicati al gioco;
2) alienazione dalla famiglia e dagli amici;
3) panico;
4) azioni illegali.

D) Perdita della speranza (fase cruciale)
1) pensieri e tentativi di suicidio;
2) arresto;
3) divorzio;
4) alcool;
5) crollo emotivo;
6) sintomi di ritiro.

E) La fase critica
1) sincero desiderio di aiuto;
2) speranza;
3) interruzione del gioco;
4) si prendono decisioni;
5) si chiariscono le idee;
6) ripresa dell’attività lavorativa;
7) soluzione dei problemi;
8) programmi di risarcimento.

F) Fase della ricostruzione :
1) migliorano i rapporti familiari;
2) si sviluppano delle mete;
3) viene trascorso più tempo con la famiglia;
4) si impara ad avere più pazienza;
5) si sviluppa una maggiore rilassatezza.
G) Fase della crescita
1) diminuzione della preoccupazione legata al gioco;
2) comprensione per gli altri;
3) dare affetto agli altri;
4) introspezione.

Il trattamento di giocatori d’azzardo patologici
Le tecniche utilizzate nella terapia del gioco d’azzardo coinvolgono la psico-educazione, le terapie individuali, di gruppo e familiari. Molta attenzione va posta, soprattutto all’inizio del programma, al superare il diniego del paziente e allo sviluppo della motivazione all’astinenza.



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giovedì 26 luglio 2007

gioco d'azzardo e famiglia

GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO E FAMIGLIA

Definizione del gioco d’azzardo
Il gioco d’azzardo è caratterizzato da tre criteri:
1. La presenza di un montepremi in denaro o un altro oggetto di valore
2. L’irreversibilità di tale messa in palio
3. Il risultato del gioco è dovuto principalmente al caso
Secondo il manuale DSM-IV il gioco d’azzardo patologico è caratterizzato da un comportamento ricorrente e maladattivo tale da compromettere le attività personali, familiari e lavorative del soggetto. Il gioco d’azzardo patologico è una vera e propria “dipendenza”, come la dipendenza da sostanze quali la droga, l’alcol. È una vera e propria “malattia” che va curata.

Gioco e famiglia
Il gioco è il sintomo, il giocatore è il paziente “designato”di una disfunzione nel sistema. Il sintomo ha un significato ambivalente, da un lato manovra per mettere in discussione le regole del sistema familiare, dall’altro può fungere da elemento stabilizzante dell’omeostasi sistemica (equilibrio famigliare).
In alcuni casi avviene che il sintomo diventa il “prezzo” che il sistema è disposto a pagare pur di mantenere immodificate le proprie regole e conservare la rigidità della propria omeostasi.
Il paziente “designato”è il portatore del sintomo, ma in realtà è tutto il sistema famiglia ad essere ammalato.
Il gioco patologico di un membro è un sintomo di qualche cosa che non funziona a livello di comunicazioni e relazioni nel sistema famiglia.
Pur costituendo il gioco patologico di un membro della famiglia un problema grave, la famiglia attraversa le fasi che la portano ad un equilibrio attorno al gioco patologico e dopo aver attraversato un periodo di disorientamento giunge a riorganizzarsi attorno al sintomo.

LE FASI DELLA RIORGANIZZAZIONE
 Negoziazione più o meno solidale del problema
 Tentativi di eliminare il problema
 Famiglia disorganizzata, i membri non sanno come affrontare il problema del gioco
 Esclusione del giocatore quale “capro espiatorio”
 Nuovo assetto organizzativo della famiglia sotto la conduzione dei membri non giocatori

In questo momento il sistema famiglia si è organizzato, si dà nuove regole e stabilisce nuove relazioni attorno al “gioco patologico”. Difficilmente i membri non giocatori saranno disposti al cambiamento, nemmeno di fronte alla riconquista della sobrietà.
Anche qualora il membro giocatore decidesse di curarsi, e di fatto mantiene l’astinenza, non è detto che da quel momento le cose cambino in meglio.
Allora cosa accade a questo punto?
Se il sistema famiglia ha stabilito con il giocatore patologico regole molto rigide, non è disposto al cambiamento e mantiene la sua omeostasi a tutti i costi.
L’astinenza dal gioco non vuol dire risanamento familiare a tutti i costi, in molti casi coincide con un peggioramento in quanto può smascherare dei problemi più profondi non legati al gioco (problemi di coppia, di ruoli e funzioni etc.).
Per potersi rinnovare la famiglia deve imparare nuovamente a organizzarsi con l’astinenza, dato che è un sistema dinamico ed aperto, può trovare un nuovo equilibrio “un nuovo modo di stare insieme” senza il gioco patologico.



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mercoledì 18 luglio 2007

La struttura della famiglia

La struttura della famiglia: modelli transazionali, sottosistemi, confini

La struttura familiare è l’invisibile insieme di richieste funzionali che determina i modi in cui i componenti della famiglia interagiscono. Una famiglia è un sistema che opera tramite modelli transazionali che regolano il comportamento dei membri di una famiglia. Esempio di modello è quando una madre dice al figlio di mangiare la pasta e lui obbedisce, questa interazione definisce chi è lei rispetto a lui e viceversa, in quello specifico momento e contesto. Operazioni ripetute costituiscono un modello transazionale.
La struttura della famiglia deve essere capace di adattarsi se le situazioni cambiano (ad esempio durante le fasi del ciclo vitale in cui viene richiesto alla famiglia di adattarsi al cambiamento richiesto dalla fase stessa). La sopravvivenza della famiglia come sistema dipende da una gamma sufficiente di modelli, dalla disponibilità di modelli transazionali alternativi e dalla flessibilità di mobilitarli quando è necessario. La famiglia entra in “crisi” quando i modelli transazionali non mostrano una “flessibilità” tale da adeguarsi alla situazione nuova che la famiglia si trova ad affrontare.
Il sistema familiare differenzia e svolge le sue funzioni per mezzo di sottosistemi. Gli individui sono sottosistemi in una famiglia. Ogni individuo appartiene a diversi sottosistemi, in cui ha diversi gradi di potere e capacità differenziate.
I confini di un sottosistema sono le regole che definiscono chi partecipa e come.
Perché la famiglia funzioni bene, i confini tra i sottosistemi devono essere “chiari” e sufficientemente “flessibili”, in modo da permettere l’assestamento quando le situazioni interne ed esterne alla famiglia cambiano.
Famiglie disimpegnate: quando i confini sono eccessivamente rigidi tanto da compromettere la comunicazione tra i sottosistemi;
famiglie con confini chiari;
Famiglie invischiate: quando la distanza diminuisce e i confini si confondono; la differenziazione del sistema familiare si indebolisce.
Nel funzionamento dei confini questi due estremi sono appunto chiamati, invischiamento e disimpegno ed ogni famiglia può essere collocata lungo un continuum che sta tra i due poli rappresentati rispettivamente tra i due estremi: confini diffusi o eccessivamente rigidi.
Un esempio: il sottosistema madre-figli può tendere verso l’invischiamento e il padre può prendere una posizione disimpegnata riguardo ad essi, diventando così una figura periferica.. Tale situazione può avere conseguenze negative sull’autonomia dei figli, sul loro svincolo dalla famiglia d’origine, con il possibile sviluppo del “sintomo”.
Compito del terapeuta della famiglia sarà quello di fungere da costruttore di confini, chiarificando i confini invischiati e sciogliendo quelli eccessivamente rigidi. La sua valutazione dei sottosistemi familiari e dell’appropriato funzionamento dei confini, fornisce un quadro diagnostico della famiglia e serve ad orientare i suoi interventi terapeutici.

Riferimento bibliografico
Minuchin S., Famiglie e Terapia della Famiglia, Astrolabio1976, Roma.



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venerdì 6 luglio 2007

Sessualità e Intimità nella coppia

Sessualità e Intimità di coppia

La sessualità
Nella relazione sessuale vanno considerati due termini: assenso e consenso.
Assenso nei termini di un’approvazione liberamente espressa o apertamente concessa;
Consenso che implica una conformità di intenti, di voleri; dal latino consensum derivato di consentire, sentire insieme.
Perché si giunga ad una relazione sessuale è necessario che i due partner maturino almeno due convinzioni: a) che esso possieda le caratteristiche ritenute necessarie alla realizzazione del proprio obiettivo, sia essa un’avventura occasionale, una relazione più stabile o la realizzazione delle mitiche aspettative fusive nel matrimonio; b) che sia pronto a mettere a disposizione le sue desiderate differenze.
Uno degli aspetti fondamentali nel rapporto intimo tra due persone è la fiducia, quell’atteggiamento cioè per il quale si vive un senso di affidamento e di sicurezza, che origina dalla speranza o dalla stima fondata su qualcuno. Non è un caso che per indicare la capacità di vivere un’esperienza sessuale, si possa usare il termine abbandonarsi.
Ma che cosa significa “di te mi fido?”.
La fiducia è la certezza di non essere traditi. Fidarsi, affidarsi e confidarsi provengono dalla stessa natura, quasi a significare che c’è una comunicazione confidenziale solo quando si sperimenta un’atmosfera di rispetto e di sicurezza. Per un rapporto di intimità e confidenza è necessario che la persona possa permettersi di essere se stessa, senza indossare maschere, senza recitare parti, senza dovere necessariamente soddisfare le aspettative altrui.
Ma siamo disposti a correre il rischio della vulnerabilità?.
La fiducia è un atteggiamento orientato al futuro: si fonda sull’aspettativa che l’altro metterà a mia disposizione la sua desiderata differenza, senza riserve e senza condizioni, capaci di indurmi frustrazione e sofferenza. In una relazione questo atteggiamento di fiducia non rimane circoscritto all’area sessuale: ciascuno dei due partner tende a cogliere nell’altro, ciò che più corrisponde alle sue attese e ad escludere quello che non si accorda con esse.
Un latro aspetto importante della sessualità è il gioco di potere.
Ad esempio, manifestare il desiderio significa mostrare la propria dipendenza dall’altro, significa riconoscere all’altro un potere su di noi; ma quanto siamo disposti ad accettare di lasciarci andare al potere dell’altro? Molto spesso dietro alle accuse sessuali, emerge il conflitto di potere che ha inquinato l’area sessuale: chi ha il diritto di dire quando e come si fa l’amore?. Ed è così che la lotta di potere può investire la sessualità determinando disfunzioni anche gravi tra la coppia.
Un altro esempio: una componente importante del piacere nella relazione sessuale è la constatazione del piacere che si procura all’altro. In questa circostanza sia ha la percezione che il piacere dell’altro costituisce una retroazione che aumenta il proprio coinvolgimento ed il proprio piacere personale ed inoltre si percepisce il potere che si ha sull’altro, dalla capacità che si ha di sconvolgerlo.
Se la relazione di coppia tende a divenire una relazione di potere, le sue caratteristiche fondamentali, reciprocità e pari titolarità, risultano minate.

Sessualità e intimità
Il sesso può fornire un linguaggio molto chiaro all’interno del quale possono trovare posto molti altri aspetti della vita della coppia, come il piacere, l’eccitazione, la paura,il potere sull’altro, l’essere usati dall’altro, la giocosità, l’avventura, l’intimità, la libertà, il legame……
Quando è che si parla di intimità di coppia:
1. non significa sentire allo stesso modo ma significa poter potenziare e dispiegare le proprie capacità individuali per arricchire la relazione di due differenti sensibilità (in altre parole, intimità e condivisione sono raggiungibili accettando e rispettando se stessi e l’unicità dell’altro);
2. lasciare che l’altro ci veda per quello che siamo, evitando di cadere nella tentazione di voler sempre apparire adeguati o perfetti e sopportando di sentirci vulnerabili ed esposti alla possibilità di un rifiuto;
3. capacità di condividere i dolori e il timore di essere feriti;
4. tollerare che quanto più un legame è stretto, tanto più alta è la possibilità di ferire ed essere feriti;
5. è importante la libera espressione dei sentimenti

Quello che ostacola l’intimità di una coppia è: la paura di dipendere dall’altro, il bisogno di indipendenza e il timore di esprimere i sentimenti o la propria debolezza. In questa situazione il soggetto non si riesce ad “abbandonarsi” all’altro e questo crea isolamento nella coppia.



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domenica 24 giugno 2007

La famiglia d'origine in terapia

La famiglia d’origine in terapia
Perché volgersi alla famiglia d’origine? È un’occasione per cercare e ri-trovare noi stessi.
Riguardare alla famiglia d’origine come matrice costitutiva dell’identità personale e come risorsa per affrontare i problemi relazionali attuali.
Un viaggio alle origini che porta il futuro terapeuta a fare i conti con la storia intergenerazionale, con i tagli emotivi, con le lealtà visibili e invisibili, con i miti familiari e individuali, con i capi espiatori, con gli scambi di doni e debiti tra le generazioni.
Nella famiglia di origine apprendiamo il nostro modello di famiglia: cosa significa essere figlio, fratello, cosa significa essere madre o padre e poi essere coniuge o genitore; apprendiamo il modo di porci in relazione con l’esterno; viviamo l’appartenenza e sperimentiamo la separazione; ed infine è nella famiglia di origine che si costruisce il nostro modello emozionale.
Tutto ciò porta alla costruzione della propria identità.
Il viaggio nella nostra famiglia è un’opportunità da non lasciarsi scappare.
È sicuramente un viaggio doloroso, difficile e pieno di ansia ma è un viaggio che ti permette di “rileggere” qualcosa che tu pensavi fosse in quel modo o qualcosa che tu non riuscivi a vedere bene.
Nel momento in cui si rappresentata la propria storia familiare, inizia il viaggio verso la “consapevolezza”.
È attraverso un lavoro attivo di recupero della storia, di studio dei miti e dei processi evolutivi della famiglia che si possono ricostruire e connettere modelli relazionali del passato con quelli attuali, per poter identificare le “risorse disponibili” che scaturiscono dal riconoscimento di valori trasmessi alle nuove generazioni.
Tale lavoro permette inoltre il riconoscimento e l’accettazione dei limiti e delle carenze originarie, in modo che i vuoti di prima possono essere riempiti con i pieni della vita e dei passaggi di sviluppo, anziché irrigidirsi e tramutarsi in buchi di conoscenza ed in aree di vulnerabilità affettiva.



Riferimenti bibliografici
Andolfi M., 1977, La terapia con la famiglia. Astrolabio. Roma.
Andolfi M., 1988, La famiglia trigenerazionale, Bulzoni , Roma.
Andolfi M., Angelo C., 1987, Tempo e mito nella psicoterapia familiare, Bollati Boringhieri, Torino.
Andolfi M., Cigoli V., 2003, La famiglia d’origine. Angeli, Milano.
Boszormenyi-Nagy I.,Spark Geraldine M.,1988, Lealtà Invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale. Astrolabio, Roma.
Byng-Hall J., 1998, Le trame della famiglia. Cortina Editore. Milano.
Framo James L., 1996, Terapia intergenerazionale. Un modello di lavoro con la famiglia d’origine. Cortina Editore. Milano.
Minuchin S., 1976, Famiglie e terapia della famiglia. Astrolabio. Roma.



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sabato 16 giugno 2007

La Famiglia dell'Anoressica

L’anoressia è un disturbo tipico dell’adolescenza. L’adolescenza è una fase del ciclo vitale denominata “fase del trampolino” (Walsh,993) o fase dello “svincolo” (Haley,983) in cui sia l’adolescente che i membri della sua famiglia sperimentano una nuova organizzazione di ruoli e di funzioni che caratterizzano una nuova identità del “familiare” e dell’”individuale”.
L’adolescenza è un periodo di transizione, un periodo delicato in cui si può assistere all’insorgenza di sintomi che comunicano la difficoltà di separarsi dalla famiglia. In alcune famiglie tale processo di riorganizzazione si ferma, comportando rigidità di ruoli, di aspettative e regressioni psicologiche importanti. Da ciò il comportamento alimentare insieme ad altri disturbi tipici dell’adolescente, possono essere riconosciuti come un vero e proprio sciopero della crescita.
Ma cosa succede nelle famiglie degli adolescenti con disturbi del comportamento alimentare?
Intanto i genitori di adolescenti si trovano, mediamente, in un periodo della vita in cui cominciano a fare i conti con l’età che avanza. Questo può spingere i genitori a mettere in atto un tentativo illusorio di allentare o fermare il corso del tempo; non riconoscendo lo stato di crescita dei loro figli adolescenti, è come se rimanessero emotivamente nella condizione con bambini piccoli e quindi con genitori giovani.
Un altro fatto da tener presente è quello in cui è possibile che in quella famiglia si possono scorgere “fantasmi di rottura” (Onnis, 1990) che portano ogni membro della famiglia a spingere verso la fusione.
Aggiungiamo inoltre i casi in cui due coniugi non vanno d’accordo, ci sono tensioni latenti e conflitti e conflitti che non vengono affrontati grazie alla presenza di un terzo (il figlio), con conseguente coinvolgimento di quest’ ultimo in ruoli e funzioni inadeguate. Può succedere così che i genitori invece di continuare a mantenere il loro ruolo con le responsabilità educative connesse, cercano di trovare un sodalizio con i figli che dall’altra parte vorrebbero invece trovare un “genitore avversario” per potersi opporre e differenziare. L’adolescente in tale situazione, può sentirsi valorizzato dalla considerazione del genitore che dall’altra si sente insoddisfatto, trascurato e incompreso dal coniuge e che vede nel figlio adolescente un sostituto, un adulto. In questo clima affettivo, i figli tendono quindi ad assumere posizioni, ruoli e atteggiamenti incongrui o accettando triangolazioni del tutto improprie. Ed è proprio in questa fitta e intricata trama di ruoli, funzioni, mandati e miti familiari, che trova luogo un disturbo del comportamento alimentare che si manifesta soprattutto come paura di crescere e di separarsi dai genitori.
Per leggere il sintomo all’interno di un contesto familiare, è necessario analizzare i “modelli di interazione familiare”. Don Jackson, uno dei pionieri della psicoterapia familiare scriveva che “la famiglia è un sistema interpersonale governato da regole di relazione (Don Jackson, 1965). L’autore intendeva dire che gli elementi costitutivi di una famiglia sono i membri con le loro relazioni e che tra queste relazioni alcune tendono a ripetersi nel tempo ed assumere una particolare stabilità nel tempo; sono queste che vengono indicate come “regole” di relazione. Tali regole devo essere flessibili per permettere processi di cambiamento, specialmente durante le fase di transazione del ciclo vitale, fase che necessitano di trasformazioni evolutive. Quando invece le regole di relazione sono eccessivamente rigide, ciò provoca una cristallizzazione dell’equilibrio che si è formato con conseguente arresto nel processo evolutivo. Ed è proprio dentro questo equilibro cristallizzato che la sofferenza familiare può tradursi nel comportamento sintomatico di un membro.
Il sintomo viene ad assumere una doppia valenza: da un lato serve per comunicare un disagio all’interno del sistema familiare, un disagio che necessita di cambiamento, dall’altra ha la funzione di mantenere un equilibrio di un sistema disfunzionale o patologico. Il metodo più semplice per mantenere inalterata una situazione familiare inadeguata, rigida, è scegliere una persona e farla diventare il problema.
Quando parliamo di organizzazione familiare, non possiamo non parlare Minuchin (1976).
Uno dei concetti della teoria di Minuchin è quello di struttura della famiglia. “La struttura familiare è l’invisibile insieme di richieste funzionali che determina i modi in cui i componenti della famiglia interagiscono una famiglia è un sistema che opera tramite modelli transazionali. Transazioni ripetute stabiliscono modelli su come, quanto e con chi stare in relazione. Questi modelli definiscono il sistema”.
La struttura della famiglia deve essere capace di adattarsi se le situazioni cambiano. Secondo Minuchin la sopravvivenza della famiglia come sistema dipende da una gamma sufficienti di modelli, dalla disponibilità dei modelli transazionali alternativi e dalla flessibilità di mobilitarli quando si è necessario.
Il sistema familiare differenzia e svolte le sue funzioni per mezzo di sottosistemi. Gli individui sono sottosistemi in una famiglia.
Un altro concetto fondamentale della teoria di Minuchin è il confine. I confine del sottosistema sono le regole che definiscono chi partecipa e come. Perché la famiglia funzioni bene, i confini tra i sottosistemi devono essere chiari. Nel funzionamento dei confini ci sono due estremi: invischiamento e disimpegno. La famiglia può essere collocata in una posizione secondo un continuum che sta tra due poli:
1. famiglie disimpegnate (confini eccessivamente rigidi)
2. famiglie normali (confini chiari)
3. famiglie invischiate (confini diffusi, dove ogni processo di differenziazione è bloccato e dove ogni separazione è vista come tradimento. In queste famiglie il senso di appartenenza predomina su quello di identità).
Le ricerche pionieristiche condotte da Mnuchin (1980) alla Philadelphia Child Guidance Clinic, avevano evidenziato la presenza nelle famiglie con problemi di anoressia, di quattro modelli di interazione disfunzionale che Minuchin aveva individuato come: invischiamento, ipreprotettività, evitamento del conflitto e rigidità.
• Invischiamento: consiste nella tendenza dei membri della famiglia a manifestare intrusioni nei pensieri, nei sentimenti, nelle azioni e nella comunicazione degli altri. In queste famiglie c’è una labilità dei confini tra gli individui e i sottosistemi generazionali con conseguente confusione delle funzioni e dei ruoli. Non c’è autonomia né spazi personali; Minuchin definì queste famiglie come “famiglie con le porte aperte”. È evidente che queste caratteristiche della struttura familiare, limitano e rendono impossibile lo sviluppo dei processi di autonomizzazione e di individuazione.
• Iperprotettività: è una tendenza alla preoccupazione, alla sollecitudine e all’interesse reciproco che i membri della famiglia manifestano specialmente per quel che riguarda il benessere fisico. In particolare, di fronte al sintomo dell’anoressia, si attiva la mobilitazione di tutta la famiglia. tale preoccupazione e atteggiamento protettivo in queste famiglie, ha la funzione di nascondere ogni altro problema, difficoltà,dolori, conflitti che sente troppo pericoloso e difficile da affrontare.
• Esitamento del conflitto: si manifesta con la tendenza dei membri della famiglia ad adoperarsi per evitare che la conflittualità o il disaccordo venga fuori. È per questo che ogni volta che la tensione della famiglia diviene minacciosa, uno dei membri, spesso il paziente, interviene richiamando su di sé e sul problema l’attenzione di tutti. Il conflitto in questo modo rimane coperto e l’intera famiglia si focalizza sulle difficoltà alimentari della paziente. È evidente come il sintomo della paziente, diventa il catalizzatore principale attorno a cui si modulano le relazioni della famiglia.
• Rigidità: consiste nella ripetizione delle stesse regole di relazione, nella difficoltà ad accettare processi di trasformazione, nel tutelare un equilibrio che si è cristallizzato e che è troppo fragile per poter accedere al rischio dei cambiamenti. L’immagine delle famiglie rigide delle anoressiche è quella di famiglie armoniose e unite, in cui l’unico problema è la malattia della paziente. Se emerge qualche contrasto tra i genitori, esso riguarda la gestione delle difficoltà alimentari della paziente. Caratteristica di queste famiglie è l’inibizione dell’espressione delle emozioni soprattutto quelle legate ad eventi troppo dolorosi per i membri della famiglia. andando a guardare la relazione di coppia dei genitori, vediamo che essa presenta problemi di comunicazione relative ad arre latenti di conflittualità nascosta e irrisolta. Questa insoddisfazione nasce da aspettative deluse che non possono essere esplicitate per paura della rottura del rapporto e che viene visto come un rischio che non può essere emotivamente affrontato (evitamento del conflitto). In queste situazioni può verificarsi il coinvolgimento della paziente in un rapporto preferenziale con l’uno o con l’altro dei genitori, solitamente con chi si sente più in difficoltà nella coppia. La figlia così viene triangolata e si troverà ad affrontare una situazione di ambivalenza: da un lato la ragazza ha la sensazione di avere un rapporto preferenziale con uno dei due genitori e si sente al centro di gratificazione e privilegi; dall’altro stabilisce un vincolo rigido di dipendenza dalle figure genitoriali che durante la crisi adolescenziale, entra in conflitto con i bisogni di autonomia e di individuazione propri di questa fase. Questa costellazione interattiva caratterizzata da relazioni invischiate, occultamento dei conflitti, immagine di armonia e coesione, nasconde spesso vissuti di solitudine, di isolamento, di carenza di scambi affettivi nella paziente.
Non solo i modelli comportamentali e di pensiero, i ruoli e le modalità di espressione nei legami affettivi ma anche i vincoli, il rispetto delle dimensioni mitiche, la lealtà ai mandati, sono fondamentali in una famiglia. La lealtà in una famiglia dipenderà dalla posizione di ciascun membro all’interno della giustizia del suo mondo umano, il che a sua volta costituisce parte del computo familiare intergenerazionale dei meriti.
A volte ci possiamo trovare di fronte a pretese eccessive, a conflitti di mandato e di lealtà che costituiscono fonte di disagio. I mandati familiari in questi casi sono tali da non accordarsi con i bisogni corrispondenti all’età del delegato che a sua volta ne viene oppresso. E questo spesso succede nelle famiglie con disturbo del comportamento alimentare.
In queste famiglie i pazienti si trovano nell’impossibilità di crescere. Missioni in cui la richiesta implicita è proprio quella di non crescere, portano il tempo familiare ad arrestarsi.
È implicita nella delega la presenza di un legame, che dovrà essere tanto più intenso e tanto più stabile, quanto i mandati saranno importanti e relativi a temi vitali. Ella famiglia i legami possono avvicinare, delimitare, abbracciare, sovrapporsi, andare incontro, cambiare forma e direzione, spezzarsi, unire più generazioni.
Nelle famiglie delle pazienti con disturbi del comportamento alimentare i legami sono “congelati”. In questo quadro il sintomo acquista un significato protettivo, rappresenta un rifugio e il disagio favorisce la possibilità di contatto che permette di preservare l’unità familiare e gli equilibri. Il sintomo acquista un significato “affettivo”, rinforza i legami che pur esistendo, vengono riconosciuti con difficoltà.
Quando viene chiesto alle ragazze anoressiche di rappresentare graficamente i legami della famiglia, esse sembrano rappresentare i familiari in zone del disegno ben definite e che difficilmente toccano le aree delimitate dagli altri membri, mentre il fuori rimane deserto. La misurazione, il controllo e l’immobilità delle distanze sono gli aspetti più importanti.
I membri delle famiglia si controllano reciprocamente, ognuno è immobilizzato nella propria posizione, irrigidito nel proprio ruolo. Prevale la paura che i legami non possono avvicinare di più senza esplodere e distanze maggiori vengono vissute come minacce per l’unità familiare. Non ci si può avvicinare o allontanare senza rimanere soli. Il controllo reciproco rappresenta l’impegno di ognuno nel mantenere una rigidità di distanze che assicura l’equilibrio necessario alla sopravvivenza della famiglia. il luogo di maggior tensione è il “centro”, il centro dello spazio familiare che rimane libero, quasi deserto, perché è un centro che spaventa e che non può neanche essere guardato. Ed è questo luogo che spesso viene occupato dalla paziente. La possibilità di definire un “centro emotivo” delle tensioni familiari viene vista come una minaccia all’unità affettiva della famiglia. il ruolo della paziente sarà quello di mascherare un “centro” che viene vissuto come pericoloso e si adopera per distogliere l’attenzione dei componenti della famiglia dal nucleo delle tensioni, pagando tutto ciò con il suo sintomo. Il tentativo della paziente di contenere le tensioni familiari, focalizzandole su di sé, trova quindi significato nel mantenere la coesione della famiglia a tutti i costi, con attenzione assoluta alla minaccia di rottura dei legami, cioè timore della disgregazione dell’unità familiare in caso di esplicazione di conflitti o aumento delle distanze tra i membri.
“Sono i vincoli di lealtà con debiti e crediti correlati, che spesso fanno prevalere gli aspetti protettivi, rivolti a mantenere l’unità familiare, con una “trama affettiva” che però invischia, trattiene, lega e sospende in un tempo che sembra fermo” (Onnis, 2000).



BIBLIOGRAFIA


1. Andolfi M., Angelo C. (1981), Tempo e mito nella psicoterapia familiare, Bollati Boringhieri, Torino.
2. Boszormeny- Nagy I., Spark G.M. (1988), Lealtà invisibili, Astrolabio, Roma.
3. Bowen M. (1979), Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma.
4. Cancrini L., La Rosa, C. (1994), Il Vasi di Pandora, Nis, Roma.
5. Minuchin S. (1980), Famiglie e terapia della famiglia, Astrolabio, Roma.
6. Onnis L. (2000), Il tempo sospeso, Astrolabio, Roma.
7. Scabini E., Cigoli V. (2000), Il Famigliare: legami, simboli e transizioni, Raffaello Cortina, Milano.
8. Watzlawick P., Beavin J., Jackson D. (1971), La pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma.

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Psicologia e Ipnosi Terapia a Firenze e Roma
L’anoressia è un disturbo tipico dell’adolescenza. L’adolescenza è una fase del ciclo vitale denominata “fase del trampolino” (Walsh,993) o fase dello “svincolo” (Haley,983) in cui sia l’adolescente che i membri della sua famiglia sperimentano una nuova organizzazione di ruoli e di funzioni che caratterizzano una nuova identità del “familiare” e dell’”individuale”.
L’adolescenza è un periodo di transizione, un periodo delicato in cui si può assistere all’insorgenza di sintomi che comunicano la difficoltà di separarsi dalla famiglia. In alcune famiglie tale processo di riorganizzazione si ferma, comportando rigidità di ruoli, di aspettative e regressioni psicologiche importanti. Da ciò il comportamento alimentare insieme ad altri disturbi tipici dell’adolescente, possono essere riconosciuti come un vero e proprio sciopero della crescita.
Ma cosa succede nelle famiglie degli adolescenti con disturbi del comportamento alimentare?
Intanto i genitori di adolescenti si trovano, mediamente, in un periodo della vita in cui cominciano a fare i conti con l’età che avanza. Questo può spingere i genitori a mettere in atto un tentativo illusorio di allentare o fermare il corso del tempo; non riconoscendo lo stato di crescita dei loro figli adolescenti, è come se rimanessero emotivamente nella condizione con bambini piccoli e quindi con genitori giovani.
Un altro fatto da tener presente è quello in cui è possibile che in quella famiglia si possono scorgere “fantasmi di rottura” (Onnis, 1990) che portano ogni membro della famiglia a spingere verso la fusione.
Aggiungiamo inoltre i casi in cui due coniugi non vanno d’accordo, ci sono tensioni latenti e conflitti e conflitti che non vengono affrontati grazie alla presenza di un terzo (il figlio), con conseguente coinvolgimento di quest’ ultimo in ruoli e funzioni inadeguate. Può succedere così che i genitori invece di continuare a mantenere il loro ruolo con le responsabilità educative connesse, cercano di trovare un sodalizio con i figli che dall’altra parte vorrebbero invece trovare un “genitore avversario” per potersi opporre e differenziare. L’adolescente in tale situazione, può sentirsi valorizzato dalla considerazione del genitore che dall’altra si sente insoddisfatto, trascurato e incompreso dal coniuge e che vede nel figlio adolescente un sostituto, un adulto. In questo clima affettivo, i figli tendono quindi ad assumere posizioni, ruoli e atteggiamenti incongrui o accettando triangolazioni del tutto improprie. Ed è proprio in questa fitta e intricata trama di ruoli, funzioni, mandati e miti familiari, che trova luogo un disturbo del comportamento alimentare che si manifesta soprattutto come paura di crescere e di separarsi dai genitori.
Per leggere il sintomo all’interno di un contesto familiare, è necessario analizzare i “modelli di interazione familiare”. Don Jackson, uno dei pionieri della psicoterapia familiare scriveva che “la famiglia è un sistema interpersonale governato da regole di relazione (Don Jackson, 1965). L’autore intendeva dire che gli elementi costitutivi di una famiglia sono i membri con le loro relazioni e che tra queste relazioni alcune tendono a ripetersi nel tempo ed assumere una particolare stabilità nel tempo; sono queste che vengono indicate come “regole” di relazione. Tali regole devo essere flessibili per permettere processi di cambiamento, specialmente durante le fase di transazione del ciclo vitale, fase che necessitano di trasformazioni evolutive. Quando invece le regole di relazione sono eccessivamente rigide, ciò provoca una cristallizzazione dell’equilibrio che si è formato con conseguente arresto nel processo evolutivo. Ed è proprio dentro questo equilibro cristallizzato che la sofferenza familiare può tradursi nel comportamento sintomatico di un membro.
Il sintomo viene ad assumere una doppia valenza: da un lato serve per comunicare un disagio all’interno del sistema familiare, un disagio che necessita di cambiamento, dall’altra ha la funzione di mantenere un equilibrio di un sistema disfunzionale o patologico. Il metodo più semplice per mantenere inalterata una situazione familiare inadeguata, rigida, è scegliere una persona e farla diventare il problema.
Quando parliamo di organizzazione familiare, non possiamo non parlare Minuchin (1976).
Uno dei concetti della teoria di Minuchin è quello di struttura della famiglia. “La struttura familiare è l’invisibile insieme di richieste funzionali che determina i modi in cui i componenti della famiglia interagiscono una famiglia è un sistema che opera tramite modelli transazionali. Transazioni ripetute stabiliscono modelli su come, quanto e con chi stare in relazione. Questi modelli definiscono il sistema”.
La struttura della famiglia deve essere capace di adattarsi se le situazioni cambiano. Secondo Minuchin la sopravvivenza della famiglia come sistema dipende da una gamma sufficienti di modelli, dalla disponibilità dei modelli transazionali alternativi e dalla flessibilità di mobilitarli quando si è necessario.
Il sistema familiare differenzia e svolte le sue funzioni per mezzo di sottosistemi. Gli individui sono sottosistemi in una famiglia.
Un altro concetto fondamentale della teoria di Minuchin è il confine. I confine del sottosistema sono le regole che definiscono chi partecipa e come. Perché la famiglia funzioni bene, i confini tra i sottosistemi devono essere chiari. Nel funzionamento dei confini ci sono due estremi: invischiamento e disimpegno. La famiglia può essere collocata in una posizione secondo un continuum che sta tra due poli:
1. famiglie disimpegnate (confini eccessivamente rigidi)
2. famiglie normali (confini chiari)
3. famiglie invischiate (confini diffusi, dove ogni processo di differenziazione è bloccato e dove ogni separazione è vista come tradimento. In queste famiglie il senso di appartenenza predomina su quello di identità).
Le ricerche pionieristiche condotte da Mnuchin (1980) alla Philadelphia Child Guidance Clinic, avevano evidenziato la presenza nelle famiglie con problemi di anoressia, di quattro modelli di interazione disfunzionale che Minuchin aveva individuato come: invischiamento, ipreprotettività, evitamento del conflitto e rigidità.
• Invischiamento: consiste nella tendenza dei membri della famiglia a manifestare intrusioni nei pensieri, nei sentimenti, nelle azioni e nella comunicazione degli altri. In queste famiglie c’è una labilità dei confini tra gli individui e i sottosistemi generazionali con conseguente confusione delle funzioni e dei ruoli. Non c’è autonomia né spazi personali; Minuchin definì queste famiglie come “famiglie con le porte aperte”. È evidente che queste caratteristiche della struttura familiare, limitano e rendono impossibile lo sviluppo dei processi di autonomizzazione e di individuazione.
• Iperprotettività: è una tendenza alla preoccupazione, alla sollecitudine e all’interesse reciproco che i membri della famiglia manifestano specialmente per quel che riguarda il benessere fisico. In particolare, di fronte al sintomo dell’anoressia, si attiva la mobilitazione di tutta la famiglia. tale preoccupazione e atteggiamento protettivo in queste famiglie, ha la funzione di nascondere ogni altro problema, difficoltà,dolori, conflitti che sente troppo pericoloso e difficile da affrontare.
• Esitamento del conflitto: si manifesta con la tendenza dei membri della famiglia ad adoperarsi per evitare che la conflittualità o il disaccordo venga fuori. È per questo che ogni volta che la tensione della famiglia diviene minacciosa, uno dei membri, spesso il paziente, interviene richiamando su di sé e sul problema l’attenzione di tutti. Il conflitto in questo modo rimane coperto e l’intera famiglia si focalizza sulle difficoltà alimentari della paziente. È evidente come il sintomo della paziente, diventa il catalizzatore principale attorno a cui si modulano le relazioni della famiglia.
• Rigidità: consiste nella ripetizione delle stesse regole di relazione, nella difficoltà ad accettare processi di trasformazione, nel tutelare un equilibrio che si è cristallizzato e che è troppo fragile per poter accedere al rischio dei cambiamenti. L’immagine delle famiglie rigide delle anoressiche è quella di famiglie armoniose e unite, in cui l’unico problema è la malattia della paziente. Se emerge qualche contrasto tra i genitori, esso riguarda la gestione delle difficoltà alimentari della paziente. Caratteristica di queste famiglie è l’inibizione dell’espressione delle emozioni soprattutto quelle legate ad eventi troppo dolorosi per i membri della famiglia. andando a guardare la relazione di coppia dei genitori, vediamo che essa presenta problemi di comunicazione relative ad arre latenti di conflittualità nascosta e irrisolta. Questa insoddisfazione nasce da aspettative deluse che non possono essere esplicitate per paura della rottura del rapporto e che viene visto come un rischio che non può essere emotivamente affrontato (evitamento del conflitto). In queste situazioni può verificarsi il coinvolgimento della paziente in un rapporto preferenziale con l’uno o con l’altro dei genitori, solitamente con chi si sente più in difficoltà nella coppia. La figlia così viene triangolata e si troverà ad affrontare una situazione di ambivalenza: da un lato la ragazza ha la sensazione di avere un rapporto preferenziale con uno dei due genitori e si sente al centro di gratificazione e privilegi; dall’altro stabilisce un vincolo rigido di dipendenza dalle figure genitoriali che durante la crisi adolescenziale, entra in conflitto con i bisogni di autonomia e di individuazione propri di questa fase. Questa costellazione interattiva caratterizzata da relazioni invischiate, occultamento dei conflitti, immagine di armonia e coesione, nasconde spesso vissuti di solitudine, di isolamento, di carenza di scambi affettivi nella paziente.
Non solo i modelli comportamentali e di pensiero, i ruoli e le modalità di espressione nei legami affettivi ma anche i vincoli, il rispetto delle dimensioni mitiche, la lealtà ai mandati, sono fondamentali in una famiglia. La lealtà in una famiglia dipenderà dalla posizione di ciascun membro all’interno della giustizia del suo mondo umano, il che a sua volta costituisce parte del computo familiare intergenerazionale dei meriti.
A volte ci possiamo trovare di fronte a pretese eccessive, a conflitti di mandato e di lealtà che costituiscono fonte di disagio. I mandati familiari in questi casi sono tali da non accordarsi con i bisogni corrispondenti all’età del delegato che a sua volta ne viene oppresso. E questo spesso succede nelle famiglie con disturbo del comportamento alimentare.
In queste famiglie i pazienti si trovano nell’impossibilità di crescere. Missioni in cui la richiesta implicita è proprio quella di non crescere, portano il tempo familiare ad arrestarsi.
È implicita nella delega la presenza di un legame, che dovrà essere tanto più intenso e tanto più stabile, quanto i mandati saranno importanti e relativi a temi vitali. Ella famiglia i legami possono avvicinare, delimitare, abbracciare, sovrapporsi, andare incontro, cambiare forma e direzione, spezzarsi, unire più generazioni.
Nelle famiglie delle pazienti con disturbi del comportamento alimentare i legami sono “congelati”. In questo quadro il sintomo acquista un significato protettivo, rappresenta un rifugio e il disagio favorisce la possibilità di contatto che permette di preservare l’unità familiare e gli equilibri. Il sintomo acquista un significato “affettivo”, rinforza i legami che pur esistendo, vengono riconosciuti con difficoltà.
Quando viene chiesto alle ragazze anoressiche di rappresentare graficamente i legami della famiglia, esse sembrano rappresentare i familiari in zone del disegno ben definite e che difficilmente toccano le aree delimitate dagli altri membri, mentre il fuori rimane deserto. La misurazione, il controllo e l’immobilità delle distanze sono gli aspetti più importanti.
I membri delle famiglia si controllano reciprocamente, ognuno è immobilizzato nella propria posizione, irrigidito nel proprio ruolo. Prevale la paura che i legami non possono avvicinare di più senza esplodere e distanze maggiori vengono vissute come minacce per l’unità familiare. Non ci si può avvicinare o allontanare senza rimanere soli. Il controllo reciproco rappresenta l’impegno di ognuno nel mantenere una rigidità di distanze che assicura l’equilibrio necessario alla sopravvivenza della famiglia. il luogo di maggior tensione è il “centro”, il centro dello spazio familiare che rimane libero, quasi deserto, perché è un centro che spaventa e che non può neanche essere guardato. Ed è questo luogo che spesso viene occupato dalla paziente. La possibilità di definire un “centro emotivo” delle tensioni familiari viene vista come una minaccia all’unità affettiva della famiglia. il ruolo della paziente sarà quello di mascherare un “centro” che viene vissuto come pericoloso e si adopera per distogliere l’attenzione dei componenti della famiglia dal nucleo delle tensioni, pagando tutto ciò con il suo sintomo. Il tentativo della paziente di contenere le tensioni familiari, focalizzandole su di sé, trova quindi significato nel mantenere la coesione della famiglia a tutti i costi, con attenzione assoluta alla minaccia di rottura dei legami, cioè timore della disgregazione dell’unità familiare in caso di esplicazione di conflitti o aumento delle distanze tra i membri.
“Sono i vincoli di lealtà con debiti e crediti correlati, che spesso fanno prevalere gli aspetti protettivi, rivolti a mantenere l’unità familiare, con una “trama affettiva” che però invischia, trattiene, lega e sospende in un tempo che sembra fermo” (Onnis, 2000).



BIBLIOGRAFIA


1. Andolfi M., Angelo C. (1981), Tempo e mito nella psicoterapia familiare, Bollati Boringhieri, Torino.
2. Boszormeny- Nagy I., Spark G.M. (1988), Lealtà invisibili, Astrolabio, Roma.
3. Bowen M. (1979), Dalla famiglia all’individuo, Astrolabio, Roma.
4. Cancrini L., La Rosa, C. (1994), Il Vasi di Pandora, Nis, Roma.
5. Minuchin S. (1980), Famiglie e terapia della famiglia, Astrolabio, Roma.
6. Onnis L. (2000), Il tempo sospeso, Astrolabio, Roma.
7. Scabini E., Cigoli V. (2000), Il Famigliare: legami, simboli e transizioni, Raffaello Cortina, Milano.
8. Watzlawick P., Beavin J., Jackson D. (1971), La pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma.

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domenica 10 giugno 2007

separazione e divorzio

Perché si decide di sposarsi
L’amore romantico?
I sociologi rilevano che sposarsi per amore è un fenomeno piuttosto recente. Prima dell’ ottocento ci si sposava soprattutto per interesse, il matrimonio doveva essere un buon affare. Ci si sposava per fronteggiare insieme la necessità dell’esistenza e per garantirsi la sopravvivenza. In effetti ancora oggi, ci si separa più difficilmente se sei un coltivatore diretto, un esercente, un artigiano o perché sei una coppia che lavora insieme o perché si ha un capitale in comune.
Attualmente gli individui si ritengono liberi di sposarsi o di convivere a seconda delle preferenze personali ma non è così semplice la cosa perché dietro tale scelta, ci sono i condizionamenti prevalenti della cultura e quelli di generazioni di famiglie.
“Ci si incontra per caso, ci si sposa per amore e per amore si rimane sposati”. Secondo il mio punto di vista, stanno diventando sempre di meno le coppie che si scelgono per amore. Ci si scegli per interesse, per comodità, per solitudine o per imposizione di altri. È bello pensare ad un “amore romantico” ma oggi come oggi in una società che ci chiede molto spesso di “apparire” (vestire in un certo modo, guadagnare un certo stipendio, rivestire un certo ruolo…..) non è più tanto facile. Per non parlare poi delle imposizioni che derivano dalle generazioni “sposa tizio perché è ricco e ti permetterà di fare la vita da signora, come io ho fatto scegliendo tuo padre”. E poi magari è una famiglia infelice o che si sta per separare .
Viviamo in una società consumistica che è alimentata da individui socializzati in modo da divenire consumatori ossessivi, sempre alla ricerca di un prodotto che soddisfi un desiderio insaziabile. L’etica consumistica si basa sulla “libertà di scelta” dell’individuo, come la libertà di scegliere tra i vari prodotti sul mercato. Questa mentalità si traduce sul piano delle relazioni umane in un sistema che colloca le persone a diversi livelli di desiderabilità come partner a seconda dei criteri ritenuti più validi nella società in cui si vive: ricchezza, successo, intelligenza e potere per gli uomini, bellezza e sex appeal e gioventù per le donne.
Secondo una ricerca condotta da Macklin ( Nontraditional family forms) il 70% degli intervistati ritiene che sposarsi rappresenta una promozione a livello sociale, confermando l’ipotesi del matrimonio come rito di passaggio verso l’età adulta e come modalità socialmente accettata di emancipazione dalla famiglia di origine. Per il 54% il matrimonio dà uno scopo alla vita e fa vivere meglio per il 5%. Altre ricerche mostrano come la scelta del matrimonio sia per: come sbocco naturale di una convivenza, perché era una cosa che facevano tutti gli amici, per legalizzare la nascita dei figli o per gravidanze in atto, per lasciare la famiglia di origine, per dare una prova d’amore all’altro e per renderlo felice, per rispetto delle convenzioni sociali e religiose, per fare piacere ai propri genitori, per portare il nome dell’altro o per ragioni fiscali.

Il matrimonio
Nonostante la progressiva diminuzione del numero dei matrimoni in Italia negli ultimi anni, il matrimonio rimane la forma di vita familiare preferita dalla maggior parte degli italiani. La Sabbadini (Immagine Sociale del Matrimonio pp. 93-18) ha individuato diverse tipologie nel vedere il matrimonio: i tradizionalisti, i moderati, i romantici, i moderni e gli antimatrimonio.
I tradizionalisti (32%) ritengono che l matrimonio sia la forma preferenziale di vita familiare, hanno un’opinione negativa della convivenza, approvano il divorzio solo per casi gravi, ritengono che il matrimonio garantisca il rapporto e che esso sia l’unica forma di convivenza moralmente accettabile.
I moderati (20%) preferiscono il matrimonio ma non stigmatizzano la convivenza. La divisione dei ruoli è in egual percentuale simmetrica e asimmetrica e soltanto per metà il matrimonio è l’unica forma di convivenza moralmente accettabile.
I romantici (11%) esaltano ancora più degli altri l’amore quale essenza fondamentale del matrimonio. La finalità procreativa è assente, il benessere e la felicità della coppia sono il fine del matrimonio, questo può realizzarsi con o senza figli.
I moderni (24%) concepiscono il matrimonio in parte come i romantici ma danno meno importanza al matrimonio come garante della continuità del rapporto, l’amore ha un peso determinante (83%) e rimane l’unica garanzia per la durata dell’unione che infatti può essere sciolta con un semplice accordo tra i pater.
Gli antimatrimonio (3%) rifiutano il matrimonio come istituzione, utile tuttalpiù per convenienza sociale. La convivenza è la forma preferita di unione, la stabilità dipende solo dal consenso dei partner.

La scelta del partner
La scelta del partner è una mescolanza tra mito familiare, mandato inerente ad esso (per mandato familiare si intende il compito più o meno esplicito assegnato a ciascun membro della famiglia riguardo ad una serie di ruoli da ricoprire e di scelta da fare, derivante dal mito e dalla storia della famiglia) e ricerca di soddisfacimento di bisogni più strettamente personali. Poi il prevalere dell’uno o dell’altro dipende e dalla forza relativa di ciascuno di essi ma anche dal tipo di relazione esistente con la famiglia di origine. Si ritiene che la scelta del partner sia espressione di un gioco sottile in cui vi è l’attenzione indotta dalla storia familiare e dall’ambiente esterno e una disattenzione selettiva per tutti gli elementi del carattere di una persona e del rapporto con essa che potrebbero rendere problematica la relazione o contrastare con il mandato familiare.
Dunque nelle fasi iniziali di costruzione di un legame, il partner diventa il mezzo principale di trasmissione e di elaborazione del mito e della storia familiare. Tale legame sembra collocarsi nei problemi non risolti di perdita, separazione, abbandono, individuazione, nutrizione e deprivazione. Mentre la trama sembra seguire quei debiti e crediti intra e intergenerazionali che stabiliscono quali ruoli le persone devono ricoprire.

Il patto coniugale
Patto dichiarato e patto segreto: il loro sviluppo e la fine del patto
La relazione coniugale si fonda su un patto fiduciario che nel matrimonio ha il suo atto esplicito.
Il patto matrimoniale non si esaurisce nella dichiarazione di impegno formulata esplicitamente e pubblicamente (patto dichiarato che richiama la valenza etica di vincolo reciproco) ma esso è sorretto anche dal patto segreto che rappresenta l’intreccio inconsapevole, su base affettiva, della scelta reciproca: “io sposo in te questo e tu sposi in me quest’altro”. Indipendenti tra loro, il patto dichiarato e il patto segreto, incontrandosi danno luogo a forme specifiche di relazione di coppia.
Cigoli nel libro Il Famigliare descrive le forme della fine del patto.
Il fallimento dell’incastro si caratterizza per la contraddittorietà tra il patto consapevole e quello segreto e cioè quando le persone danno per scontato il patto dichiarato ma non riescono a far incontrare e a mettere insieme il patto segreto. Avviene quando ognuno cerca di imporre i propri bisogni all’altro, quindi l’altro è tale solo se viene incontro e soddisfa le proprie necessità affettive.
L’esaurimento del compito assegnato al legame dove l’incastro tra patto dichiarato e patto segreto è riuscito ma vi è l’impossibilità di rilanciare il patto segreto, vale a dire che i partner non sono in grado di fare il passaggio da “sposo questo in te a sposo quest’altro in te” e perciò esaurita la soddisfazione di quella particolare forma di incastro iniziale tra i bisogni, il legame viene meno.
L’avvenimento sconcertante può essere la nascita di un figlio oppure l’incontro inatteso con un’ altra persona che sollecita il nuovo legame. Tali eventi sono critici perché inattesi, imprevisti, sconcertanti. Nel caso della nascita di un figlio, la trasformazione della relazione che il figlio comporta, in quanto terzo, è in grado di far saltare la coppia. Qualcuno, specie il maschio, sente rompersi l’equilibrio che lo vede al centro della cura mentre la femmina, cerca di impossessarsi del figlio e di ristabilire la “mitica” relazione a due ( non di rado con il supporto della famiglia di origine).
L’avvenimento sconcertante riguarda però anche l’incontro con una terza persona con la quale viene stipulato un altro tipo di patto segreto. Tale patto entra in conflitto con quello precedente, reclama il suo soddisfacimento e vuole imporsi come esclusivo.
A questi eventi che possono portare alla fine del patto vorrei introdurre anche il tema della differenziazione.
Per molti studiosi la capacità di iniziare e fa durare un rapporto sembra legata al grado di differenziazione e di individuazione raggiunto dai due partner e dal modo in cui hanno affrontato e risolto le esperienze di separazione e attaccamento nel corso del loro sviluppo individuale. Per Andolfi non ci si può unire in modo soddisfacente se prima ciascuno non è in grado di riconoscere il proprio spazio personale. Molte scelte di coppia sono dovute ad un basso livello di differenziazione del sé (sono individui il cui Io è fuso nella massa indifferenziata dell’Io della famiglia). La scelta del partner in tali persone è influenzata da meccanismi non soddisfatti all’interno di questa massa indifferenziata.
Per Whitaker solo se due partner riescono a differenziarsi, possono essere intimi. Se al contrario non possono sviluppare la propria individualità, non possono costruire il loro stare insieme.

La separazione
L’atto di separazione non sancisce di per sé la fine vera e propria di un rapporto di coppia, in quanto i tempi del distacco emotivo e affettivo sono diversi da quelli del rito giudiziario. Il provvedimento assunto dal tribunale spesso non coincide con la fine della coppia e del suo conflitto, in quanto anche le vie legali spesso diventano le modalità attraverso cui gli e coniugi continuano a tenersi a contatto e a esercitare pressioni l’uno sull’altro.
Bohannan (985) ha descritto il processo di separazione attraverso una serie di tappe successive che non possono essere superate se non si è conclusa positivamente quella precedente:
Separazione emotiva: quando la coppia si sente sempre più insoddisfatta e sente che il rapporto si sta deteriorando e che non vale la pena di continuare a vivere insieme.
Separazione legale e economica: gli ex coniugi rendono pubblico il loro conflitto al tribunale per sancire la fine del rapporto.
Separazione genitoriale: la coppia si definisce divisa nella relazione coniugale ma unita per quanto riguarda il ruolo genitoriale.
Separazione psichica: ogni membro della coppia arriva ad accettare il nuovo stato sociale e ad accettare la lontananza dell’ex partner con conseguente reinvestimento emotivo del mondo esterno

Esistono due tipi di separazione: quella consensuale e quella giudiziale.
La separazione consensuale è l'istituto mediante il quale marito e moglie, di comune accordo tra loro, decidono di separarsi.
In caso di separazione consensuale il sistema con cui si confronta il giudice è costituito da un numero minimo di attori. Gli accordi sono presi dalle parti in causa che possono essere supportati dai rispettivi avvocati ma i coniugi possono anche decidere per un avvocato che li rappresenti entrambi. I figli spesso non vengono neanche informati preventivamente o hanno inizialmente informazioni solo parziali da parte dei genitori.
Il ruolo del tribunale è quello di limitarsi ad un controllo sociale esterno, ogni decisione, anche relativa ai minori è assunta dai coniugi. Il giudice assume una funzione notarile e cioè prendere atto per conto della società della modifica del contratto matrimoniale tra le parti.
La separazione giudiziale è la forma di separazione che viene presa in considerazione nel momento in cui non può esserci accordo tra i coniugi.
La separazione giudiziale iniziano con “addebito” ovvero con un “contenzioso” giuridico.
In una ricerca (Dell’Antonio, Vincenti Amato,1992) sulle sentenze emesse nel 1986 gli autori osservano che la maggior parte delle relazioni giudiziali, vede la contesa sul piano economico come molto più frequente (76%) di quella relativa ai figli.
Nelle separazioni giudiziali si possono distinguere tre fasi: presidenziale, istruttoria, decisoria. In ognuno di questi momenti il giudice assolve a compiti finalizzati ad un accordo tra le parti e a tutelare l’interesse del minore.
Il “contenzioso” tra i coniugi caratterizza la separazione giudiziale. Il sistema è costituito dal giudice, dagli avvocati, dalle parti in causa e a differenza della separazione consensuale cominciano ad avere un peso maggiore le famiglie di origine e gli eventuali partner.
Sono prese una serie di decisioni riguardanti i beni mobili e immobili, i figli e avviene la definizione delle nuove regole secondo cui gli ex coniugi struttureranno nel futuro la loro relazione.
Il giudice decide sull’affidamento dei minori valutando l’idoneità genitoriale di entrambi in rapporto ad una serie di elementi di prova portati a sua conoscenza.
Questo tipo di separazione già connota il disaccordo tra gli ex coniugi dentro una cornice di maggior giuridificazione del conflitto (diventa necessaria la presenza di due avvocati rappresentanti le parti in causa e che tutelano le “ragioni” dell’uno contro l’altro) e di delega genitoriale. L’intervento del giudice sui diversi aspetti del contendere (aspetti economici, affidamento del minore, valutazione di idoneità genotoriale, modalità di frequentazione con il genitore non affidatario) aliena il potere decisionale degli ex coniugi, soprattutto rispetto al ruolo genitoriale e là dove si evidenziano contrasti o sull’affidamento dei minori o sulle modalità di incontro con il genitore non affidatario, il giudice in fase istruttoria può far ricorso ad una consulenza tecnica. L’obiettivo della consulenza sarà quello di avere un “tecnico” (psicologo, psichiatra, neuropsichiatria infantile) che dia informazioni specifiche sull’idoneità genitoriale ma anche sui bisogni, le motivazioni e i desideri del minore.
Del tutto insufficiente risulta la consulenza tecnica nel risolvere i problemi legati alla conflittualità tra gli ex coniugi.
L’alta conflittualità spesso corrisponde ad una separazione non portata a termine sul piano affettivo ed emotivo (divorzio psichico) per cui, permanendo l’ambivalenza nei confronti della separazione coniugale, si intensificano gli elementi di ambiguità, di confusione e mancanza di chiarezza nelle comunicazioni con conseguenti sentimenti di rabbia tra gli ex coniugi.

Dalla separazione giuridica a quella psicologica
La separazione è un processo complesso che evidenzia un’area disfunzionale nelle relazioni tanto più grande e intensa è l' incongruità tra separazione formale e separazione psicologica.
Il conflitto è anche esso un legame che soddisfa bisogni profondi che la separazione fisica non può colmare infatti spesso con coppie che si separano, si assiste ad una sorta di “necessità” del conflitto che sembra emergere in particolari momenti delle fasi della separazione nella famiglia, come ad esempio la richiesta di divorzio, nuove nascite o crisi depressive di uno dei due coniugi.
I diversi interventi come la consulenza tecnica, la mediazione familiare, la psicoterapia, non sono sostituibili l’uno con l’altro ma rappresentano livelli di intervento diversi nel lungo processo della separazione.
La consulenza in fase di separazione non può essere sostituita da una perizia che pure ha il compito di aiutare i genitori a trovare dei modi di relazionarsi per rispettare il bisogno dei figli di accedere ad ambedue i genitori e di sapere che entrambi si occuperanno di loro, così come la separazione può comportare l’inizio di una terapia di coppia con la motivazione e la speranza di riuscire a differenziarsi e a distanziarsi da un rapporto non più funzionale al sistema familiare.
È di fondamentale importanza secondo il mio punto di vista accompagnare la separazione che sia consensuale o giudiziale, ad un percorso di terapia di coppia e o familiare. I libri sostengono che occorre separare e distinguere fra divorzio e responsabilità genitoriale preservando la continuità delle relazioni parentali ma pensiamo a due persone che si separano, là dove c’è soprattutto conflitto, rabbia, dolore! Come si può non pensare ad un percorso terapeutico che includa anche i figli. Molto spesso i figli vengono tagliati fuori per paura di non farli soffrire ma ci hanno sempre detto che i figli hanno delle “antenne speciali” nel captare ogni dolore, ogni sofferenza nel conflitto tra i genitori; o molto spesso possono diventare lo strumento inadeguato della contesa coniugale o possono farsi carico emotivamente dei problemi dei genitori oppure possono essere chiamati a scegliere l’uno o l’altro genitore.

Il modello trigenerazionale come modalità di intervento nel conflitto di coppia
Proprio nella conflittualità coniugale, il modello trigenerazionale diventa utile per approfondire le qualità dei legami familiari passati e il loro peso nelle conflittualità presenti che possono portare ad una separazione e per tener conto di quanto questi legami passati elaborati o meno entrino nel rapporto con i figli che, dopo la separazione, possono essere inseriti nella famiglia di origine di una dei due coniugi.
L’importanza della famiglia di origine in terapia segue teorie fondamentali: il pensiero di Bowen, di Framo e di Boszormeny-Nagy.
Per Bowen è importante il processo di differenziazione del proprio sé dalla famiglia di origine; non di rado si osserva che il legame emotivo tra due coniugi era identico a quello che ciascuno di loro aveva avuto nella propria famiglia. Il concetto fondamentale della teoria di Boewn è quello di “massa indifferenziata dell’io della famiglia”. Si tratta di una identità emotiva conglomerata che esiste ad ogni livello di intensità sia nelle famiglie in cui è più evidente sia in quelle in cui è quasi impercettibile. Il compito del terapeuta sarà quello di aiutare ciascun componente della famiglia a raggiungere un livello più alto di differenziazione del sé. Un sistema emotivo funziona per mezzo di un equilibrio delicatamente bilanciato in cui ciascuno dedica una certa quantità del suo essere e del suo sé al benessere degli altri. In uno stato di squilibrio, il sistema familiare agisce automaticamente per ristabilire l’equilibrio precedente e può succedere che se un individuo si muove verso un più alto livello di differenziazione del sé, le forze del gruppo familiare si oppongono.
In Boszormeny-Nagy il riferimento alla famiglia di origine si inserisce nel concetto fondamentale della trama delle lealtà invisibili che legano i diversi componenti della famiglia. Secondo l’autore il terapeuta deve tenere presente che le esigenze del singolo contengono un insieme di computi relazionali irrisolti della sua famiglia di origine. Egli deve venire a conoscenza della posizione di ciascun componente nel sistema familiare: i suoi obblighi, impegni, le vicende relative al merito, allo sfruttamento, ecc. Il terapeuta deve conoscere la struttura dei modelli della famiglia di origine dell’individuo e dei suoi obblighi “importanti” rispetto al sistema. Così chi si innamora ha l’esigenza di vedere l’altro quale oggetto che si adatta alle proprie esigenze sessuali, protettive, dipendenti e alle proprie aspettative invisibili dovute alla sua famiglia di origine (il matrimonio rappresenta l’incontro tra due sistemi familiari e spesso provoca un confronto tra i due sistemi di lealtà delle famiglie di origine, oltre che a richiedere a entrambi i coniugi di equilibrare la lealtà coniugale rispetto alla lealtà verso le rispettive famiglie di origine). Le determinanti relazionali più profonde del matrimonio si basano su un conflitto tra la lealtà irrisolta di ciascun coniuge nei confronti della famiglia di origine e la sua lealtà verso la famiglia nucleare. L’obbligo irrisolto verso la famiglia di origine è la “lealtà originale” e quando un uomo e una donna si sposano, la loro lealtà verso un’unità familiare nucleare deve raggiungere una tale importanza da permettere di superare le lealtà originali. Per superare le lealtà originali, bisogna farci i conti e cioè affrontare e portare alla luce la lealtà invisibile di ciascun coniuge verso la propria famiglia di origine.
Framo utilizza la presenza della famiglia d’origine nella seduta terapeutica legandola al suo orientamento teorico secondo il quale le difficoltà attuali, familiari e di coppia, sono elaborazioni dei problemi relazionali dei coniugi con la propria famiglia di origine.
Andolfi fa riferimento alle sue fonti (le sue linee guida) nell’uso del modello trigenerazionale in situazioni di crisi di coppia. Nell’incontro con Bowen è colpito dalla sua profonda convinzione che per risolvere un problema del “qui ed ora” bisognava andare “lì e prima” quindi utilizza uno schema simile a quello di Framo, convocando coppie con difficoltà simili, dove l’incontro con la famiglia di origine diventa un evento occasionale. Ma è l’incontro con Whitaker che lo influenza maggiormente “per Whitaker l’ampliamento dell’unità di osservazione alla famiglia trigenerazionale non ha limite né sul piano orizzontale né su quello verticale” (Andolfi, 1988). Questo ampliamento è possibile grazie alla capacità di Withaker di mantenersi integro e di porsi ad un livello di “separatezza emotiva” rispetto alle conflittualità emergenti, per arrivare ad una modalità associativa che permetta di produrre un viaggio a ritroso tramite veri e propri salti temporali.
Detto questo penso che il ruolo del terapeuta in coppie separate o in via di separazione è quello di aiutare gli ex coniugi ad assolvere compiti di sviluppo familiari nelle loro posizioni di ex coniugi, genitori e figli.
In quanto ex coniugi è necessario aiutarli a realizzare il cosiddetto divorzio psichico che implica l’elaborazione e la comprensione di ciò che ha portato alla separazione. Un lavoro arduo soprattutto quando si separano coppie con un’alta conflittualità. Compito del terapeuta sarà quello di lavorare soprattutto sul dolore, sulla sofferenza, sulla perdita di fiducia, sulla rabbia, sull’incomprensione dei due ex coniugi.
In quanto genitori aiutare gli ex coniugi a garantire l’esercizio della funzione genitoriale. Detta così è facile ma pensiamo a quando i due genitori continuano a farsi la guerra da ex coniugi feriti e arrabbiati e come la probabilità che trasportino i loro figli in questa guerra è molto alta!.
In quanto figli compito del terapeuta sarà quello di ridefinire i legami con la famiglia estesa dell’ex coniuge. Soprattutto dopo la separazione, le relazioni con la parentela vanno gestite per il significato che esse hanno avuto e hanno per sé e per i propri figli.
E poi la separazione riallaccia il legame di ciascun coniuge con la propria famiglia di origine. Non è un caso che figli di coppie separate convivono con i nonni, quando non è addirittura l’intero nucleo monogenitorale che và a vivere nella famiglia di origine del genitore, tornando così a “riempire il nido vuoto”. In questi casi può succedere che dal punto di vista del figlio separato, il ritorno in famiglia, può rinforzare o amplificare la condizione di figlio con il rischio di una possibili regressione.



BIBLIOGRAFIA

Andolfi, M., La Crisi della Coppia. Una prospettiva sistemico-relazionale. Raffaello Cortina Editore, 2000.
Boszormenyi-Nagy, I., Spark, G. M., Lealtà Invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale. Astrolabio, 1988.
Bowen, M., Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare. Astrolabio, 1979.
De Leo, G., Quadrio, A., Manuale di Psicologia Giuridica. Edizione Universitaria di Lettere Economia Diritto. Milano 1995.
Francescato, D., Quando l’amore finisce. Il Mulino. Bologna 1992.
Rivista interdisciplinare di ricerca ed intervento relazionale. Terapia Familiare. N. 70-Luglio 2002-A.P.F.
Rivista interdisciplinare di ricerca ed intervento relazionale. Terapia Familiare. N.72-Luglio 2003-A.P.F.
Rivista interdisciplinare di ricerca ed intervento relazionale. Terapia Familiare. N.78-Luglio 2005-A.P.F.
Scabini, E., Cigoli, V., Il familiare. Legami, simboli e transizioni. Raffaello Cortina Editore, 2000.
Togliatti, M, Montinari G., Famiglie divise, i diversi percorsi fra giudici, consulenti e terapeuti. Franco Angeli, 1995.

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Perché si decide di sposarsi

L’amore romantico?
I sociologi rilevano che sposarsi per amore è un fenomeno piuttosto recente. Prima dell’ ottocento ci si sposava soprattutto per interesse, il matrimonio doveva essere un buon affare. Ci si sposava per fronteggiare insieme la necessità dell’esistenza e per garantirsi la sopravvivenza. In effetti ancora oggi, ci si separa più difficilmente se sei un coltivatore diretto, un esercente, un artigiano o perché sei una coppia che lavora insieme o perché si ha un capitale in comune.
Attualmente gli individui si ritengono liberi di sposarsi o di convivere a seconda delle preferenze personali ma non è così semplice la cosa perché dietro tale scelta, ci sono i condizionamenti prevalenti della cultura e quelli di generazioni di famiglie.
“Ci si incontra per caso, ci si sposa per amore e per amore si rimane sposati”. Secondo il mio punto di vista, stanno diventando sempre di meno le coppie che si scelgono per amore. Ci si scegli per interesse, per comodità, per solitudine o per imposizione di altri. È bello pensare ad un “amore romantico” ma oggi come oggi in una società che ci chiede molto spesso di “apparire” (vestire in un certo modo, guadagnare un certo stipendio, rivestire un certo ruolo…..) non è più tanto facile. Per non parlare poi delle imposizioni che derivano dalle generazioni “sposa tizio perché è ricco e ti permetterà di fare la vita da signora, come io ho fatto scegliendo tuo padre”. E poi magari è una famiglia infelice o che si sta per separare .
Viviamo in una società consumistica che è alimentata da individui socializzati in modo da divenire consumatori ossessivi, sempre alla ricerca di un prodotto che soddisfi un desiderio insaziabile. L’etica consumistica si basa sulla “libertà di scelta” dell’individuo, come la libertà di scegliere tra i vari prodotti sul mercato. Questa mentalità si traduce sul piano delle relazioni umane in un sistema che colloca le persone a diversi livelli di desiderabilità come partner a seconda dei criteri ritenuti più validi nella società in cui si vive: ricchezza, successo, intelligenza e potere per gli uomini, bellezza e sex appeal e gioventù per le donne.
Secondo una ricerca condotta da Macklin ( Nontraditional family forms) il 70% degli intervistati ritiene che sposarsi rappresenta una promozione a livello sociale, confermando l’ipotesi del matrimonio come rito di passaggio verso l’età adulta e come modalità socialmente accettata di emancipazione dalla famiglia di origine. Per il 54% il matrimonio dà uno scopo alla vita e fa vivere meglio per il 5%. Altre ricerche mostrano come la scelta del matrimonio sia per: come sbocco naturale di una convivenza, perché era una cosa che facevano tutti gli amici, per legalizzare la nascita dei figli o per gravidanze in atto, per lasciare la famiglia di origine, per dare una prova d’amore all’altro e per renderlo felice, per rispetto delle convenzioni sociali e religiose, per fare piacere ai propri genitori, per portare il nome dell’altro o per ragioni fiscali.

Il matrimonio
Nonostante la progressiva diminuzione del numero dei matrimoni in Italia negli ultimi anni, il matrimonio rimane la forma di vita familiare preferita dalla maggior parte degli italiani. La Sabbadini (Immagine Sociale del Matrimonio pp. 93-18) ha individuato diverse tipologie nel vedere il matrimonio: i tradizionalisti, i moderati, i romantici, i moderni e gli antimatrimonio.
I tradizionalisti (32%) ritengono che l matrimonio sia la forma preferenziale di vita familiare, hanno un’opinione negativa della convivenza, approvano il divorzio solo per casi gravi, ritengono che il matrimonio garantisca il rapporto e che esso sia l’unica forma di convivenza moralmente accettabile.
I moderati (20%) preferiscono il matrimonio ma non stigmatizzano la convivenza. La divisione dei ruoli è in egual percentuale simmetrica e asimmetrica e soltanto per metà il matrimonio è l’unica forma di convivenza moralmente accettabile.
I romantici (11%) esaltano ancora più degli altri l’amore quale essenza fondamentale del matrimonio. La finalità procreativa è assente, il benessere e la felicità della coppia sono il fine del matrimonio, questo può realizzarsi con o senza figli.
I moderni (24%) concepiscono il matrimonio in parte come i romantici ma danno meno importanza al matrimonio come garante della continuità del rapporto, l’amore ha un peso determinante (83%) e rimane l’unica garanzia per la durata dell’unione che infatti può essere sciolta con un semplice accordo tra i pater.
Gli antimatrimonio (3%) rifiutano il matrimonio come istituzione, utile tuttalpiù per convenienza sociale. La convivenza è la forma preferita di unione, la stabilità dipende solo dal consenso dei partner.

La scelta del partner
La scelta del partner è una mescolanza tra mito familiare, mandato inerente ad esso (per mandato familiare si intende il compito più o meno esplicito assegnato a ciascun membro della famiglia riguardo ad una serie di ruoli da ricoprire e di scelta da fare, derivante dal mito e dalla storia della famiglia) e ricerca di soddisfacimento di bisogni più strettamente personali. Poi il prevalere dell’uno o dell’altro dipende e dalla forza relativa di ciascuno di essi ma anche dal tipo di relazione esistente con la famiglia di origine. Si ritiene che la scelta del partner sia espressione di un gioco sottile in cui vi è l’attenzione indotta dalla storia familiare e dall’ambiente esterno e una disattenzione selettiva per tutti gli elementi del carattere di una persona e del rapporto con essa che potrebbero rendere problematica la relazione o contrastare con il mandato familiare.
Dunque nelle fasi iniziali di costruzione di un legame, il partner diventa il mezzo principale di trasmissione e di elaborazione del mito e della storia familiare. Tale legame sembra collocarsi nei problemi non risolti di perdita, separazione, abbandono, individuazione, nutrizione e deprivazione. Mentre la trama sembra seguire quei debiti e crediti intra e intergenerazionali che stabiliscono quali ruoli le persone devono ricoprire.

Il patto coniugale
Patto dichiarato e patto segreto: il loro sviluppo e la fine del patto
La relazione coniugale si fonda su un patto fiduciario che nel matrimonio ha il suo atto esplicito.
Il patto matrimoniale non si esaurisce nella dichiarazione di impegno formulata esplicitamente e pubblicamente (patto dichiarato che richiama la valenza etica di vincolo reciproco) ma esso è sorretto anche dal patto segreto che rappresenta l’intreccio inconsapevole, su base affettiva, della scelta reciproca: “io sposo in te questo e tu sposi in me quest’altro”. Indipendenti tra loro, il patto dichiarato e il patto segreto, incontrandosi danno luogo a forme specifiche di relazione di coppia.
Cigoli nel libro Il Famigliare descrive le forme della fine del patto.
Il fallimento dell’incastro si caratterizza per la contraddittorietà tra il patto consapevole e quello segreto e cioè quando le persone danno per scontato il patto dichiarato ma non riescono a far incontrare e a mettere insieme il patto segreto. Avviene quando ognuno cerca di imporre i propri bisogni all’altro, quindi l’altro è tale solo se viene incontro e soddisfa le proprie necessità affettive.
L’esaurimento del compito assegnato al legame dove l’incastro tra patto dichiarato e patto segreto è riuscito ma vi è l’impossibilità di rilanciare il patto segreto, vale a dire che i partner non sono in grado di fare il passaggio da “sposo questo in te a sposo quest’altro in te” e perciò esaurita la soddisfazione di quella particolare forma di incastro iniziale tra i bisogni, il legame viene meno.
L’avvenimento sconcertante può essere la nascita di un figlio oppure l’incontro inatteso con un’ altra persona che sollecita il nuovo legame. Tali eventi sono critici perché inattesi, imprevisti, sconcertanti. Nel caso della nascita di un figlio, la trasformazione della relazione che il figlio comporta, in quanto terzo, è in grado di far saltare la coppia. Qualcuno, specie il maschio, sente rompersi l’equilibrio che lo vede al centro della cura mentre la femmina, cerca di impossessarsi del figlio e di ristabilire la “mitica” relazione a due ( non di rado con il supporto della famiglia di origine).
L’avvenimento sconcertante riguarda però anche l’incontro con una terza persona con la quale viene stipulato un altro tipo di patto segreto. Tale patto entra in conflitto con quello precedente, reclama il suo soddisfacimento e vuole imporsi come esclusivo.
A questi eventi che possono portare alla fine del patto vorrei introdurre anche il tema della differenziazione.
Per molti studiosi la capacità di iniziare e fa durare un rapporto sembra legata al grado di differenziazione e di individuazione raggiunto dai due partner e dal modo in cui hanno affrontato e risolto le esperienze di separazione e attaccamento nel corso del loro sviluppo individuale. Per Andolfi non ci si può unire in modo soddisfacente se prima ciascuno non è in grado di riconoscere il proprio spazio personale. Molte scelte di coppia sono dovute ad un basso livello di differenziazione del sé (sono individui il cui Io è fuso nella massa indifferenziata dell’Io della famiglia). La scelta del partner in tali persone è influenzata da meccanismi non soddisfatti all’interno di questa massa indifferenziata.
Per Whitaker solo se due partner riescono a differenziarsi, possono essere intimi. Se al contrario non possono sviluppare la propria individualità, non possono costruire il loro stare insieme.

La separazione
L’atto di separazione non sancisce di per sé la fine vera e propria di un rapporto di coppia, in quanto i tempi del distacco emotivo e affettivo sono diversi da quelli del rito giudiziario. Il provvedimento assunto dal tribunale spesso non coincide con la fine della coppia e del suo conflitto, in quanto anche le vie legali spesso diventano le modalità attraverso cui gli e coniugi continuano a tenersi a contatto e a esercitare pressioni l’uno sull’altro.
Bohannan (985) ha descritto il processo di separazione attraverso una serie di tappe successive che non possono essere superate se non si è conclusa positivamente quella precedente:
Separazione emotiva: quando la coppia si sente sempre più insoddisfatta e sente che il rapporto si sta deteriorando e che non vale la pena di continuare a vivere insieme.
Separazione legale e economica: gli ex coniugi rendono pubblico il loro conflitto al tribunale per sancire la fine del rapporto.
Separazione genitoriale: la coppia si definisce divisa nella relazione coniugale ma unita per quanto riguarda il ruolo genitoriale.
Separazione psichica: ogni membro della coppia arriva ad accettare il nuovo stato sociale e ad accettare la lontananza dell’ex partner con conseguente reinvestimento emotivo del mondo esterno

Esistono due tipi di separazione: quella consensuale e quella giudiziale.
La separazione consensuale è l'istituto mediante il quale marito e moglie, di comune accordo tra loro, decidono di separarsi.
In caso di separazione consensuale il sistema con cui si confronta il giudice è costituito da un numero minimo di attori. Gli accordi sono presi dalle parti in causa che possono essere supportati dai rispettivi avvocati ma i coniugi possono anche decidere per un avvocato che li rappresenti entrambi. I figli spesso non vengono neanche informati preventivamente o hanno inizialmente informazioni solo parziali da parte dei genitori.
Il ruolo del tribunale è quello di limitarsi ad un controllo sociale esterno, ogni decisione, anche relativa ai minori è assunta dai coniugi. Il giudice assume una funzione notarile e cioè prendere atto per conto della società della modifica del contratto matrimoniale tra le parti.
La separazione giudiziale è la forma di separazione che viene presa in considerazione nel momento in cui non può esserci accordo tra i coniugi.
La separazione giudiziale iniziano con “addebito” ovvero con un “contenzioso” giuridico.
In una ricerca (Dell’Antonio, Vincenti Amato,1992) sulle sentenze emesse nel 1986 gli autori osservano che la maggior parte delle relazioni giudiziali, vede la contesa sul piano economico come molto più frequente (76%) di quella relativa ai figli.
Nelle separazioni giudiziali si possono distinguere tre fasi: presidenziale, istruttoria, decisoria. In ognuno di questi momenti il giudice assolve a compiti finalizzati ad un accordo tra le parti e a tutelare l’interesse del minore.
Il “contenzioso” tra i coniugi caratterizza la separazione giudiziale. Il sistema è costituito dal giudice, dagli avvocati, dalle parti in causa e a differenza della separazione consensuale cominciano ad avere un peso maggiore le famiglie di origine e gli eventuali partner.
Sono prese una serie di decisioni riguardanti i beni mobili e immobili, i figli e avviene la definizione delle nuove regole secondo cui gli ex coniugi struttureranno nel futuro la loro relazione.
Il giudice decide sull’affidamento dei minori valutando l’idoneità genitoriale di entrambi in rapporto ad una serie di elementi di prova portati a sua conoscenza.
Questo tipo di separazione già connota il disaccordo tra gli ex coniugi dentro una cornice di maggior giuridificazione del conflitto (diventa necessaria la presenza di due avvocati rappresentanti le parti in causa e che tutelano le “ragioni” dell’uno contro l’altro) e di delega genitoriale. L’intervento del giudice sui diversi aspetti del contendere (aspetti economici, affidamento del minore, valutazione di idoneità genotoriale, modalità di frequentazione con il genitore non affidatario) aliena il potere decisionale degli ex coniugi, soprattutto rispetto al ruolo genitoriale e là dove si evidenziano contrasti o sull’affidamento dei minori o sulle modalità di incontro con il genitore non affidatario, il giudice in fase istruttoria può far ricorso ad una consulenza tecnica. L’obiettivo della consulenza sarà quello di avere un “tecnico” (psicologo, psichiatra, neuropsichiatria infantile) che dia informazioni specifiche sull’idoneità genitoriale ma anche sui bisogni, le motivazioni e i desideri del minore.
Del tutto insufficiente risulta la consulenza tecnica nel risolvere i problemi legati alla conflittualità tra gli ex coniugi.
L’alta conflittualità spesso corrisponde ad una separazione non portata a termine sul piano affettivo ed emotivo (divorzio psichico) per cui, permanendo l’ambivalenza nei confronti della separazione coniugale, si intensificano gli elementi di ambiguità, di confusione e mancanza di chiarezza nelle comunicazioni con conseguenti sentimenti di rabbia tra gli ex coniugi.

Dalla separazione giuridica a quella psicologica
La separazione è un processo complesso che evidenzia un’area disfunzionale nelle relazioni tanto più grande e intensa è l' incongruità tra separazione formale e separazione psicologica.
Il conflitto è anche esso un legame che soddisfa bisogni profondi che la separazione fisica non può colmare infatti spesso con coppie che si separano, si assiste ad una sorta di “necessità” del conflitto che sembra emergere in particolari momenti delle fasi della separazione nella famiglia, come ad esempio la richiesta di divorzio, nuove nascite o crisi depressive di uno dei due coniugi.
I diversi interventi come la consulenza tecnica, la mediazione familiare, la psicoterapia, non sono sostituibili l’uno con l’altro ma rappresentano livelli di intervento diversi nel lungo processo della separazione.
La consulenza in fase di separazione non può essere sostituita da una perizia che pure ha il compito di aiutare i genitori a trovare dei modi di relazionarsi per rispettare il bisogno dei figli di accedere ad ambedue i genitori e di sapere che entrambi si occuperanno di loro, così come la separazione può comportare l’inizio di una terapia di coppia con la motivazione e la speranza di riuscire a differenziarsi e a distanziarsi da un rapporto non più funzionale al sistema familiare.
È di fondamentale importanza secondo il mio punto di vista accompagnare la separazione che sia consensuale o giudiziale, ad un percorso di terapia di coppia e o familiare. I libri sostengono che occorre separare e distinguere fra divorzio e responsabilità genitoriale preservando la continuità delle relazioni parentali ma pensiamo a due persone che si separano, là dove c’è soprattutto conflitto, rabbia, dolore! Come si può non pensare ad un percorso terapeutico che includa anche i figli. Molto spesso i figli vengono tagliati fuori per paura di non farli soffrire ma ci hanno sempre detto che i figli hanno delle “antenne speciali” nel captare ogni dolore, ogni sofferenza nel conflitto tra i genitori; o molto spesso possono diventare lo strumento inadeguato della contesa coniugale o possono farsi carico emotivamente dei problemi dei genitori oppure possono essere chiamati a scegliere l’uno o l’altro genitore.

Il modello trigenerazionale come modalità di intervento nel conflitto di coppia
Proprio nella conflittualità coniugale, il modello trigenerazionale diventa utile per approfondire le qualità dei legami familiari passati e il loro peso nelle conflittualità presenti che possono portare ad una separazione e per tener conto di quanto questi legami passati elaborati o meno entrino nel rapporto con i figli che, dopo la separazione, possono essere inseriti nella famiglia di origine di una dei due coniugi.
L’importanza della famiglia di origine in terapia segue teorie fondamentali: il pensiero di Bowen, di Framo e di Boszormeny-Nagy.
Per Bowen è importante il processo di differenziazione del proprio sé dalla famiglia di origine; non di rado si osserva che il legame emotivo tra due coniugi era identico a quello che ciascuno di loro aveva avuto nella propria famiglia. Il concetto fondamentale della teoria di Boewn è quello di “massa indifferenziata dell’io della famiglia”. Si tratta di una identità emotiva conglomerata che esiste ad ogni livello di intensità sia nelle famiglie in cui è più evidente sia in quelle in cui è quasi impercettibile. Il compito del terapeuta sarà quello di aiutare ciascun componente della famiglia a raggiungere un livello più alto di differenziazione del sé. Un sistema emotivo funziona per mezzo di un equilibrio delicatamente bilanciato in cui ciascuno dedica una certa quantità del suo essere e del suo sé al benessere degli altri. In uno stato di squilibrio, il sistema familiare agisce automaticamente per ristabilire l’equilibrio precedente e può succedere che se un individuo si muove verso un più alto livello di differenziazione del sé, le forze del gruppo familiare si oppongono.
In Boszormeny-Nagy il riferimento alla famiglia di origine si inserisce nel concetto fondamentale della trama delle lealtà invisibili che legano i diversi componenti della famiglia. Secondo l’autore il terapeuta deve tenere presente che le esigenze del singolo contengono un insieme di computi relazionali irrisolti della sua famiglia di origine. Egli deve venire a conoscenza della posizione di ciascun componente nel sistema familiare: i suoi obblighi, impegni, le vicende relative al merito, allo sfruttamento, ecc. Il terapeuta deve conoscere la struttura dei modelli della famiglia di origine dell’individuo e dei suoi obblighi “importanti” rispetto al sistema. Così chi si innamora ha l’esigenza di vedere l’altro quale oggetto che si adatta alle proprie esigenze sessuali, protettive, dipendenti e alle proprie aspettative invisibili dovute alla sua famiglia di origine (il matrimonio rappresenta l’incontro tra due sistemi familiari e spesso provoca un confronto tra i due sistemi di lealtà delle famiglie di origine, oltre che a richiedere a entrambi i coniugi di equilibrare la lealtà coniugale rispetto alla lealtà verso le rispettive famiglie di origine). Le determinanti relazionali più profonde del matrimonio si basano su un conflitto tra la lealtà irrisolta di ciascun coniuge nei confronti della famiglia di origine e la sua lealtà verso la famiglia nucleare. L’obbligo irrisolto verso la famiglia di origine è la “lealtà originale” e quando un uomo e una donna si sposano, la loro lealtà verso un’unità familiare nucleare deve raggiungere una tale importanza da permettere di superare le lealtà originali. Per superare le lealtà originali, bisogna farci i conti e cioè affrontare e portare alla luce la lealtà invisibile di ciascun coniuge verso la propria famiglia di origine.
Framo utilizza la presenza della famiglia d’origine nella seduta terapeutica legandola al suo orientamento teorico secondo il quale le difficoltà attuali, familiari e di coppia, sono elaborazioni dei problemi relazionali dei coniugi con la propria famiglia di origine.
Andolfi fa riferimento alle sue fonti (le sue linee guida) nell’uso del modello trigenerazionale in situazioni di crisi di coppia. Nell’incontro con Bowen è colpito dalla sua profonda convinzione che per risolvere un problema del “qui ed ora” bisognava andare “lì e prima” quindi utilizza uno schema simile a quello di Framo, convocando coppie con difficoltà simili, dove l’incontro con la famiglia di origine diventa un evento occasionale. Ma è l’incontro con Whitaker che lo influenza maggiormente “per Whitaker l’ampliamento dell’unità di osservazione alla famiglia trigenerazionale non ha limite né sul piano orizzontale né su quello verticale” (Andolfi, 1988). Questo ampliamento è possibile grazie alla capacità di Withaker di mantenersi integro e di porsi ad un livello di “separatezza emotiva” rispetto alle conflittualità emergenti, per arrivare ad una modalità associativa che permetta di produrre un viaggio a ritroso tramite veri e propri salti temporali.
Detto questo penso che il ruolo del terapeuta in coppie separate o in via di separazione è quello di aiutare gli ex coniugi ad assolvere compiti di sviluppo familiari nelle loro posizioni di ex coniugi, genitori e figli.
In quanto ex coniugi è necessario aiutarli a realizzare il cosiddetto divorzio psichico che implica l’elaborazione e la comprensione di ciò che ha portato alla separazione. Un lavoro arduo soprattutto quando si separano coppie con un’alta conflittualità. Compito del terapeuta sarà quello di lavorare soprattutto sul dolore, sulla sofferenza, sulla perdita di fiducia, sulla rabbia, sull’incomprensione dei due ex coniugi.
In quanto genitori aiutare gli ex coniugi a garantire l’esercizio della funzione genitoriale. Detta così è facile ma pensiamo a quando i due genitori continuano a farsi la guerra da ex coniugi feriti e arrabbiati e come la probabilità che trasportino i loro figli in questa guerra è molto alta!.
In quanto figli compito del terapeuta sarà quello di ridefinire i legami con la famiglia estesa dell’ex coniuge. Soprattutto dopo la separazione, le relazioni con la parentela vanno gestite per il significato che esse hanno avuto e hanno per sé e per i propri figli.
E poi la separazione riallaccia il legame di ciascun coniuge con la propria famiglia di origine. Non è un caso che figli di coppie separate convivono con i nonni, quando non è addirittura l’intero nucleo monogenitorale che và a vivere nella famiglia di origine del genitore, tornando così a “riempire il nido vuoto”. In questi casi può succedere che dal punto di vista del figlio separato, il ritorno in famiglia, può rinforzare o amplificare la condizione di figlio con il rischio di una possibili regressione.



BIBLIOGRAFIA

Andolfi, M., La Crisi della Coppia. Una prospettiva sistemico-relazionale. Raffaello Cortina Editore, 2000.
Boszormenyi-Nagy, I., Spark, G. M., Lealtà Invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale. Astrolabio, 1988.
Bowen, M., Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare. Astrolabio, 1979.
De Leo, G., Quadrio, A., Manuale di Psicologia Giuridica. Edizione Universitaria di Lettere Economia Diritto. Milano 1995.
Francescato, D., Quando l’amore finisce. Il Mulino. Bologna 1992.
Rivista interdisciplinare di ricerca ed intervento relazionale. Terapia Familiare. N. 70-Luglio 2002-A.P.F.
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Scabini, E., Cigoli, V., Il familiare. Legami, simboli e transizioni. Raffaello Cortina Editore, 2000.
Togliatti, M, Montinari G., Famiglie divise, i diversi percorsi fra giudici, consulenti e terapeuti. Franco Angeli, 1995.

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