Psicolife - psicologia e psicoterapia a Firenze

venerdì 27 novembre 2009

Il bambino che fa il bullo

Si parla di bullismo quando uno o più individui si divertono utilizzando il proprio potere per molestare ripetutamente e gravemente una o più persone. Il bullismo comprende vari comportamenti: il bullismo fisico, quello verbale e il bullismo relazionale.
Il bambino incline al bullismo presenta gravi problemi di impulsività e di inadeguata espressione dell’aggressività, ha difficoltà di sentirsi di far parte della comunità scolastica. Il bullo individua un altro bambino più “debole” e lo fa diventare il suo bersaglio da colpire ogni volta lui decide di farlo. Si sente superiore e rifiuta l’altro perchè si giudica migliore di lui e quindi in diritto di tormentarlo. Nel momento in cui un comportamento bullistico non viene riconosciuto e affrontato, rimane la possibilità che da adulto possa diventare un violento; non sarà da meno un bambino che è stato vittima di un atto di bullismo. Chi subisce ripetuti atti di bullismo tende a sviluppare sintomi depressivi, bassi livelli di autostima, sentimenti di paura e stati ansiosi. Essi provano vergogna e imbarazzo nel parlare del loro problema ma quanto più si isolano tanto più cadono nel loro stato di angoscia. I sintomi di ansia che possono manifestare sono l’insonnia, gli incubi, i tic, l’eccesso di nervosismo e il rifiuto di andare a scuola. Inoltre possono manifestare mancanza di appetito, problemi gastrointestinali, dermatiti etc. Dall’altra, i bambini che si comportano da bulli, nonostante l’apparente fiducia in se stessi, hanno un livello di autostima basso e sebbene sembra che si piacciano, è dimostrato che solo le situazioni da cui possono ricavare un senso di superiorità o di controllo sugli altri, riescono a farli stare meglio, a placare la loro inquietudine. Nella maggior parte dei casi di bullismo, ci si concentra sul bambino che ha subito l’aggressione ma altrettanto importante è dedicarsi al “bullo” attraverso un lavoro di collaborazione tra la famiglia, la scuola e gli operatori del sociale (psicologi, assistenti sociali…), perché spesso dietro un atto di bullismo, ci sono messaggi, tra cui quello di richiesta di attenzione. I genitori vanno aiutati ad affrontare il problema. Spesso quando scoprono che un figlio fa il bullo, si preoccupano perché temono che non impari a stare bene con gli altri e vivono l’ansia di essere convocati a scuola in seguito ad un nuovo episodio di abuso. Non capiscono perché i figli si comportino male e si sentono in difficoltà per il loro insuccesso nel limitare il comportamento aggressivo dei figli. Questi genitori vanno aiutati a chiedere aiuto a persone specializzate sia per capire cosa c’è dietro il comportamento da bullo sia per imparare quali sono le strategie migliori da adottare per fronteggiare la situazione. Ci sono poi genitori che sottovalutano il problema, arrivando anche a giustificare il comportamento dei loro figli e questo atteggiamento non fa che peggiorare tutta la situazione a casa e a scuola. Dall’altra, come si deve comportare invece un genitore di un bambino vittima di bullismo?. Anche in questo caso i genitori vanno guidati, perché un atteggiamento iperprotettivo potrebbe essere nocivo e portare il bambino a sentirsi insicuro e debole ma anche un atteggiamento troppo duro portarlo a non sentirsi compreso e a sottovalutare la sua richiesta di aiuto.
Le situazioni vanno valutate caso per caso, con particolare attenzione al bambino che sia il bullo che sia la vittima, in relazione al contesto casa, scuola e al contesto socio-culturale.
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sabato 26 settembre 2009

“Litighiamo per ogni sciocchezza e poi da una lite arriviamo a farci la guerra”.

Molto spesso sento dire dalle coppie in terapia che non si fa altro che litigare, litigare, litigare, arrivando ad esplosioni di rabbia enorme da entrambe le parti; “non siamo mai arrivati a tanto, non mi riconosco più”.
Il più delle volte non è tanto quello che si dice a ferire ma il “come” vengono dette le cose.
Faccio un esempio. L’uomo che durante un litigio si sente sfidato dalla compagna, non fa altro che dimostrare di aver ragione e con questo finisce di essere affettuoso, diventando ostile. È ciò che porta a ferire la compagna.
Quando invece è la donna a sentirsi sfidata, ella adotta un atteggiamento verbale diffidente e improntato al rifiuto. È ciò che porta a ferire il compagno.
Quasi sempre non ci si accorge, perché troppo presi a farsi la guerra, di quanto tale comportamento porti a ferire sia l’uno che l’altro. Utile in terapia è registrare le sedute e poi far riascoltare alla coppia la cassetta. Riascoltandosi mostrano sorpresa nel sentire certe espressioni e toni e modi di parlare all’altro/a.
Durante un litigio l’uomo usa le armi del rimprovero, del giudizio e della critica, ha la tendenza ad urlare (e questo porta ad intimidire la compagna) e a dare libero sfogo alla rabbia. In questo modo la partner, intimidita, si ritira e si chiude in se stessa arrivando a perdere la fiducia nel compagno che a sua volta si ammutolisce e perde via via la capacità di provare interesse e amore per lei. La conclusione è che forse è meglio non parlare di certi argomenti altrimenti si arriva di nuovo alla lite. Apparentemente le cose per un po’ sembrano andare bene ma è solo una illusione, perché non si fa altro che tenersi tutto dentro e aspettare il pretesto per “rinfacciare”.
Di solito per dimenticare i sentimenti che fanno male e di cui è meglio non parlare, l’uomo si getta sul lavoro, sul cibo o cade in altre forme di dipendenza (ad esempio la dipendenza da gioco d’azzardo).
Dall’altra la donna si stampa un sorriso sul viso, mostrando a se stessa e agli altri la soddisfazione di stare bene. Con il tempo però, il suo risentimento cresce, continua a dare al compagno ma senza ricevere nulla di cui ha bisogno. Questo succede perché lei ha difficoltà a chiedere per se stessa, non riconoscendo i suoi bisogni!. Allora prenderà su di sé la colpa e la responsabilità di qualunque cosa stia turbando il partner, però senza andare mai a fondo al motivo dello stare male. Il loro principale obiettivo è quello di essere ammirate da tutti “sei veramente brava, se non fosse per te che pensi a tutto!”; ma così facendo rinunciano alla propria identità (le codipendenti).

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domenica 30 agosto 2009

“Non mi sento capita”…. “Non mi sento accettato”.

In una coppia gli uomini e le donne hanno bisogni emotivi diversi, è un bagaglio che ognuno porta con sè e, nel momento della scelta del proprio partner, lo/la sceglie in base alla “soddisfazione” di quei bisogni. Spesso però, ognuno pensa che l’altro abbia i suoi stessi desideri e i suoi stessi bisogni e questo da luogo a insoddisfazione e risentimenti. Faccio un esempio, a volte noi donne facciamo un sacco di domande al nostro partner e in questo modo esprimiamo interesse per lui e preoccupazione, pensiamo che facendolo parlare, dopo si sentirà meglio o che riusciremo a risolvere il suo problema (le solite “crocerossine”). Dall’altra il nostro partner non sente lo stesso bisogno della donna, perché il suo di bisogno è quello di essere lasciato in pace per un po’ di tempo, lui sente la necessità di pensare tra se e se e di conseguenza percepisce come invadente le tante domande che le fa la compagna; inoltre sente che la sua compagna lo ritiene incapace di prendere la decisione giusta e non si sente accettato. L’uomo ha bisogno di apprezzamento e incoraggiamento. Ancora un altro esempio che riguarda invece quanto le donne non si sentano capite dal proprio compagno. Quando una donna è turbata, il suo compagno pensa di aiutarla facendo osservazioni che minimizzano l’importanza dei suoi problemi e così la donna si sente dire “dai che non è poi così grave” oppure la ignora, pensando che lei ha bisogno di strare da sola. La donna invece vuole, desidera, essere “ascoltata” dal proprio partner senza essere giudicata, in questo modo si sente “capita” e sostenuta. Le donne hanno bisogno di essere rassicurate e comprese.
Quanto spesso in terapia sento dire da un uomo “lei cerca di correggere il mio comportamento e mi tratta come se fossi un bambino dicendomi che cosa devo e non devo fare”; e da una donna “lui non mi ascolta, minimizza l’importanza dei miei sentimenti, non mi sento compresa, mi sento sola”.
Questi momenti in terapia sono molto importanti, perché danno la possibilità ad ognuno di ascoltarsi con attenzione per la prima volta e di comprendere che, quello che sente uno o che desidera, non è identico a quello dell’altro; i bisogni tra un uomo e una donna sono diversi!.
Da quel momento in poi, sicuramente ci saranno “ricadute” nei vecchi comportamenti ma saranno sempre di meno, perché ora c’è la consapevolezza
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domenica 26 luglio 2009

Perché le differenze tra un uomo e una donna portano alla lite?

Esistono differenze tra un uomo e una donna, sono differenze che non vanno sottovalutate perché, se le si ignorano o non le si conoscono, spesso portano ad incomprensioni e malesseri nella coppia. Gli uomini e le donne hanno diversi modi di pensare, di parlare, di amare e di agire.
Gli uomini danno importanza soprattutto al potere, alla competenza, all’efficienza e ai risultati. Si definiscono in base alla loro capacità di raggiungere risultati. Raggiungere degli obiettivi è molto importante per un uomo, è un modo di dimostrare la propria capacità e quindi di stare bene con se stesso. Quando una donna dice ad un uomo “cosa fare”, offrendogli un consiglio, lui reagisce male perché ai suoi occhi significa che non sa fare quella cosa o che non è in grado di farlo da solo.
Le donne invece danno importanza all’amore, ai sentimenti, alla bellezza e ai rapporti interpersonali. La comunicazione per loro è molto importante, come è importante per loro “essere ascoltate”. Le donne sono molto intuitive, sono ottime ascoltatrici e tendono spesso ad anticipare i bisogni degli altri. Per una donna non c’è nulla di offensivo nell’offrire un aiuto e nell’averne bisogno mentre per un uomo può significare segno di debolezza. Infatti spesso succede che, ad offrire assistenza ad un uomo, si rischia di farlo sentire incompetente, debole o addirittura menomato. Non di rado, durante le mie terapie di coppia, sento dire ad una donna che il loro tentativo è quello di voler “cambiare” il loro partner e questa è una missione importante per loro “ci riuscirò prima o poi a farlo diventare come desidero”; “deve cambiare, così non va bene”. Pensate per un uomo quanto tutto ciò sia squalificante ed offensivo!.
Le differenze tra un uomo e una donna derivano anche e soprattutto dal “parlare due lingue diverse” che spesso portano a fraintendimenti.
Le donne hanno un modo diverso di esprimere i sentimenti: spesso sento dire da una donna “non mi sento ascoltata né capita da lui” e dall’altra l’uomo che risponde “ma io proprio non sono d’accordo con quello che dici”, perché lui è fermamente convinto di averla ascoltata sempre.
Oppure, quando l’uomo sta in silenzio, lei fraintende e pensa che non la ma più. Sono molte le ragioni per cui l’uomo tende a rinchiudersi in se stesso: magari ha bisogno di risolvere un problema e di trovare una soluzione pratica. Questo suo “chiudersi in se steso” viene visto dalla donna come un “vedi non vuole condividere con me quello che lo preoccupa e io non so come aiutarlo se lui non me lo dice”. Spesso noi donne sbagliamo il momento, perché è fondamentale aspettare un tempo e chiedere nel momento adatto, accettando anche periodi di chiusura da parte di lui. Quando invece una donna vuole a tutti i costi sapere che cosa turba un uomo per voler risolvere subito il problema, “io le chiamo le crocerossine ”, appare invadente ed è proprio quello il modo di far chiudere ancor di più l’altro. Può succedere che si sente soffocare quando lei cerca di confortarlo (che è una cosa che all’uomo non piace) o di aiutarlo a risolvere una difficoltà. Lui può avere la sensazione che lei non lo ritenga in grado di gestire i suoi problemi, che non lo ritenga abbastanza uomo. Può sentirsi controllato, trattato come un bambino o avere l’impressione che lei lo voglia cambiare. Quello che in genere io consiglio alle coppie che manifestano questo problema, è quello di “lasciarsi” periodicamente degli “spazi reciproci”, senza aver paura che questi spazi possano invece far allontanare e di aspettare, nel caso dell’uomo che si chiude in se stesso, che sia lui a chiedere aiuto e non lei ad anticiparlo.
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lunedì 15 giugno 2009

Quando un figlio sta male……….

L’invio.
I genitori possono essere inviati da latri professionisti o presentarsi di propria iniziativa. È fondamentale rispondere prontamente all’invio, dal momento che il funzionamento relazionale di genitori e figli che vivono in condizione di costante tensione può deteriorarsi rapidamente. Inoltre una risposta fornita con il giusto tempismo permette al terapeuta di effettuare una prima valutazione dei rischi che il bambino corre nell’immediato. Il primo contatto con il terapeuta avviene telefonicamente, perché è questo il momento in cui una persona comincia ad interessarsi alle preoccupazioni per se stesso e per il bambino.
La prima seduta.
In questa fase è fondamentale per il terapeuta capire quali sono i veri motivi della richiesta di aiuto.
a. Problemi del bambino: ci si riferisce a tutte le problematiche direttamente attribuibili al bambino (difficoltà di regolazione nell’alimentazione, difficoltà comportamentali, gli scoppi di rabbia, una eccessiva dipendenza etc…).
b. Problemi del genitore: è frequente che una famiglia venga segnalata quando di ritiene che le problematiche legate alla salute del genitore e al suo stato mentale rappresentino un rischio potenziale per lo sviluppo del bambino. Un esempio è quando il genitore è troppo assorbito dai propri stati affettivi e non è in grado di riconoscere i bisogni del figlio né di rispondere ad essi. A questo comportamento del genitore, il bambino potrebbe rispondere imparando ad adattarsi alla mancanza di disponibilità del genitore ritirandosi dalla relazione e facendo ricorso all’autostimolazione e all’autoconsolazione.
c. Problemi della relazione con il bambino: ci sono casi in cui la relazione con il bambino si presenta come problematica sin dall’inizio. Per esempio una madre potrebbe riferire di non aver stabilito un legame con il proprio figlio. Sono genitori che non sono in grado di creare nella propria mente lo spazio per preoccuparsi del figlio, spesso non riescono ad adattarsi ai suoi bisogni precoci e a farsi coinvolgere in una relazione connotata da un investimento emotivo molto forte. È molto importante che il bambino senta che qualcuno si occupa dei suoi stati fisici e mentali, comunicandogli la sensazione di essere al sicuro.
d. Problemi della coppia genitoriale: la relazione di coppia può rappresentare la ragione iniziale per la consultazione, per esempio quando sia in corso una separazione. In altri casi dietro una qualche preoccupazione per il figlio, si nasconde una situazione problematica di coppia.

La fase intermedia della terapia.
La chiave del cambiamento nella relazione genitori-bambino è racchiusa nella fase intermedia della terapia, quando tutti i pazienti sono sempre più coinvolti. Questa fase può aver inizio anche se non è ancora completamente consolidata l’alleanza terapeutica. Anche il bambino a sua volta assorbe le emozioni che circolano nella stanza di terapia, costruisce la sua relazione con il terapeuta e nutre un’aspettativa sull’aiuto che può riceverne.
Una volta che il legame terapeutico si è stabilizzato, emergono con maggiore chiarezza gli “stili relazionali” di bambini e genitori. Compito del terapeuta è di “restituire” ai pazienti le “interazioni” così come le osserva, come se fosse possibile vederle al rallentatore per esaminare i dettagli impercettibili ad un primo esame.
La conclusione della terapia.
La decisione di porre fine al trattamento attiva nella relazione tra terapeuta, genitori e bambino uno stadio caratterizzato molto spesso dall’improvvisa comparsa di sentimenti regressivi ed emozioni primitive, ad esempio l’ansia da separazione. Uno dei compiti evolutivi del bambino è quello di imparare a gestire le continue separazioni che affronta ogni giorno: deve accettare che i genitori lo possono lasciare anche da solo per un po’ di ore, imparare che arriva il momento di andare a dormire o sapere aspettare se non riceve una risposta immediata alle sue richieste. Durante la terapia i genitori e il bambino condividono le separazioni rappresentate dalla fine di ogni seduta seguite dal ricongiungimento nella seduta successiva. L fase conclusiva permette di assimilare queste esperienze e prepara ad un ultimo saluto, a cui non seguirà un ritorno per la seduta successiva.
Questa fase fornisce al bambino e al genitore la preziosa opportunità i percepire, comprendere e digerire i sentimenti di separazione e di perdita.
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giovedì 14 maggio 2009

L'autonomia

L’autonomia di una persona non va considerata unicamente all’interno dei confini della forza dell’Io e delle risorse intrapsichiche. Il raggiungimento dell’autonomia è strettamente legato alla “lealtà” verso la famiglia di origine. “Gli impegni di lealtà” dei singoli membri della famiglia sono indicatori del bilancio della giustizia familiare: costituiscono una determinante invisibile, intrinseca di catene di azioni-reazioni tra i membri della famiglia attraverso le generazioni.
Può succedere che il figlio per esempio, può rimanere indebitato verso i genitori che hanno fatto tanto per lui, e ripagarli attraverso forme patologiche di lealtà come il non riuscire a crescere emotivamente o a separarsi. In questo contesto qualsiasi psicopatologia e insuccesso di maturazione equivale ad un pagamento per la gratitudine e la lealtà dovute ai genitori (figli come oggetti sacrificali).
Gli adulti che non hanno adeguatamente elaborato la loro separazione emotiva e il senso di colpa, posso rimanere inconsciamente troppo impegnati e leali verso le famiglie di origine. I loro figli possono allora essere usati come oggetto sostitutivo di gratificazione per la dipendenza non esaudita dei genitori. I genitori possono anche cercare di ripagare il loro debito verso i propri genitori con un atteggiamento oblativo verso i figli, atteggiandosi a martiri e generando sensi di colpa. Che succede allora? Quando ai bambini non è permesso di essere tali, di perseguire i propri interessi e bisogni, si sentono iper-responsabili e cercano di svolgere funzioni genitoriali: il figlio genitorializzato.

L’individuo è membro di un sistema relazionale attraverso il suo impegno di lealtà. È impegnato verso la famiglia attraverso obblighi sia manifesti sia invisibili. È una tendenza umana attendersi una giusta ricompensa ai propri contributi “dopo tutto quello che ho fatto per te, questo è il ringraziamento, andartene, fregandotene della nostra famiglia” e dovere una giusta ricompensa per i benefici ricevuti dagli altri.
L’unione tra due persone spesso provoca un confronto tra due sistemi di lealtà verso la famiglia nucleare. L’obbligo “irrisolto” verso la famiglia di origine lo chiamiamo “lealtà originale”. Quando un uomo e una donna decidono di stare insieme, la loro lealtà verso la futura unità familiare nucleare deve raggiungere una tale importanza, da permettere loro di “superare” le lealtà originali”.
Molto spesso nel mio lavoro con le coppie, ho potuto constatare che quasi sempre, quando ci sono conflitti coniugali, un sintomo scatenante (es. una dipendenza patologica) di uno dei coniugi o di un figlio, dietro al malessere che la famiglia o un membro porta in terapia, si nascondono “lealtà originali” congelate, ossia conflitti di lealtà che non permettono all’intero sistema familiare, di raggiungere un equilibrio sano. La formazione di un capro espiatorio in una famiglia può servire ad evitare le lealtà familiari irrisolte. Allora se il “tempo” della famiglia è quello giusto, il terapeuta deve chiamare tutti i membri della famiglia nucleare per “scongelare” obblighi irrisolti.


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giovedì 2 aprile 2009

La famiglia con un figlio adolescente

L’adolescenza è un evento critico di crescita e come tale mette alla prova la capacità di adattamento e flessibilità dell’intera organizzazione e struttura familiare. Si tratta di una sfida evolutiva che interessa sia l’adolescente che il genitore.
Un compito di sviluppo di tale fase del ciclo vitale, è rappresentato dalla separazione dalle figure parentali con il parallelo raggiungimento dell’indipendenza.
Al giorno d’oggi non è sempre facile compiere questo passo, perché è un passo che richiede molti sforzi a livello emotivo da parte sia dei genitori che dell’adolescente.
Il percorso di transizione si realizza attraverso il processo di differenziazione reciproca tra le generazioni: differenziarsi vuole dire rispondere di sé in termini di pensieri, emozioni ed azioni a partire dalla comune appartenenza alla storia familiare. Ciò che nasce è la capacità di distinguere tra sé e l’altro da sé.
L’adolescente ha bisogno di uscire da casa per confrontarsi con il mondo esterno, cercando attivamente un gruppo di riferimento che costituisce per lui un vero e proprio supporto identitario. Ma nello stesso tempo deve poter ritornare presso la sua famiglia d’origine, per introdurre le conquiste esterne e saggiare la capacità di accettazione e di integrazione del sistema familiare. Crescere vuole dire essere portatori di una differenza senza negare la matrice di appartenenza.
Per i genitori si tratta di passare da una fase di generatività parentale ad una di generatività sociale. Il crescere dei figli rinvia al tema del distacco-perdita con il quale i genitori devono confrontasi. Ciò necessita di un’adeguata elaborazione del dolore connesso alla separazione dai figli e consente alla coppia genitoriale di reinvestire sulla coppia coniugale e di prepararsi al momento dell’uscita dei figli da casa. Inoltre alla base di una comunicazione adeguata tra genitori e figli adolescenti ci deve essere la capacità genitoriale di accettare gradualmente le opinioni dei ragazzi e il loro punto di vista durante i dialoghi e le discussioni in famiglia e di sostenere i loro sforzi verso l’autonomia.

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lunedì 16 marzo 2009

Le emozioni nella prima infanzia

Verso i 2 anni molti bambini dispongono di un vocabolario con cui descrivere le emozioni fondamentali “Ti abbraccio. Bimbo contento”; “E’ buio. Ho paura”. Nell’età compresa tra i 2 e i 5 anni il bambino impara a riconoscere e a nominare situazioni ed espressioni del viso che denotano sentimenti diversi. La distinzione tra sentimenti positivi e negativi è la prima ad essere acquisita. Parallelamente allo sviluppo si osservano vari cambiamenti nella comprensione di diversi aspetti delle emozioni: il bambino per esempio arriva a capire sempre di più che la fonte delle emozioni può essere sia interna sia esterna, cioè legata alle situazioni. Prima dei 6-7 anni può essere in grado di nominare emozioni sia positive che negative; ma fino ai 9-10 anni non riesce a riconoscere con chiarezza l’ambivalenza o i sentimenti costituiti da un misto di emozioni negative e positive. A mano a mano che il bambino cresce, capisce sempre meglio che i sentimenti reali possono essere diversi da quelli osservabili, impara che è possibile mascherare le proprie emozioni.
Nel periodo compreso tra i 7 e i 12 mesi i bambini sviluppano nuove paure, probabilmente a causa dell’incremento della memoria di rievocazione (capacità di recuperare uno schema, e cioè la rappresentazione degli elementi salienti in un evento e le loro relazioni reciproche, in assenza di stimoli rilevanti) e delle memoria a breve termine (il processo tramite il quale l’esperienza presente viene messa in relazione con gli schemi immagazzinati per un periodo di 20-30 secondi).
La paura degli estranei: una delle paure più frequenti nel secondo semestre di vita è l’angoscia di fronte agli estranei. I bambino di 8 mesi manifesta uno stato di angoscia quando corruga il volto all’avvicinarsi degli estranei, volge lo sguardo verso la madre e l’estraneo e dopo pochi secondi comincia a piangere. Dunque, il bambino di 8 mesi per diventare ansioso, non deve osservare la persona che gli è familiare, in quanto mette a confronto l’estraneo con gli schemi recuperati nella memoria, delle figure familiari e quando non riesce ad assimilare il primo al secondo, cade nell’incertezza e si mette a piangere.
L’angoscia da separazione: la paura di una separazione temporanea che si prende cura di lui si manifesta quando il bambino viene lasciato in una ambiente sconosciuto o in presenza di un estraneo, mentre è meno probabile se il bambino si trova in casa o con un familiare o con una baby-sitter. L’angoscia di separazione compare di solito tra i 7 e i 12 mesi, raggiunge il culmine tra i 15 e i 18 mesi e poi diminuisce gradualmente. L’intensità dell’angoscia per una temporanea separazione dalla madre può dipendere in parte dalla qualità della relazione emotiva che si è instaurata nella coppia madre-figlio.
Le emozioni e le espressioni facciali: il sorriso.
Anche il neonato sorride ma si tratta di una reazione riflessa, stimolata spesso da un colpetto sulle labbra o sulle guance, anche se nel primo mese comparirà in risposta a determinati suoni. A 2 mesi invece il sorriso è una risposta ad una più ampia gamma di stimoli, specialmente ai volti umani e alle voci. A 3 mesi il bambino può sorridere in risposta alla maggior parte dei volti umani perché riconosce che il volto è simile ad un viso familiare, forse a quello del genitore. Nel corso del primo anno tendono a sorridere ad esempio alla madre che fa il cucù o al solletico. Ma già dall’inizio del secondo anno sorrideranno e rideranno in situazioni che hanno provocato essi stessi. La comparsa del sorriso e del riso è dunque il risultato di modificazioni cognitive.
L’espressione delle emozioni è influenzata sia dai fattori biologici che dall’apprendimento. Mano mano che procede il processo di maturazione, i bambini cominciano ad interpretare e ad etichettare le loro sensazioni e nel farlo usano spesso concetti appresi dagli altri. A seconda delle situazioni, i bambini imparano ad associare le loro sensazioni e la situazione, all’etichetta “rabbia”, “paura”, “vergogna”.

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domenica 15 febbraio 2009

Il gruppo

Il gruppo si identifica come una pluralità in interazione, con un valore di legame.
Pluralità: il gruppo è un insieme numericamente ridotto di persone.
Interazione: è l’azione reciproca tra gli individui del gruppo. Si definisce almeno a tre livelli: il primo è quello dell’influenzamento reciproco dell’individuo (agito), giocato tra l’adattarsi agli altri e ad adattare gli altri; il secondo è il fare insieme più o meno concertato (possibile); il terzo è quello dell’agire contingente caratterizzato da vincoli di tempo, spazio, imposti dal qui ed ora (necessitato).
Legame: è il vincolo che si instaura tra gli individui che compongono un gruppo, definisce i sentimenti di appartenenza che si sviluppano tra chi si trova a condividere un campo di interazioni. Questo legame è segnato profondamente da fatti di ordine psicologico: bisogni, desideri, rappresentazioni.


I bisogni individuali e i bisogni del gruppo

Il gruppo è il luogo nel quale si possono esprimer e soddisfare o veder frustrati l’intera gamma dei bisogni individuali.

I bisogni individuali: stima e autostima, identità, sicurezza e contribuzione.
1) La stima e l’autostima sono correlate: tanto più ci si sente apprezzati e ben valutati dal proprio ambiente, tanto più alto sarà il livello di autostima, cioè l’apprezzamento che si ha di sé e il valore che si attribuisce. Il gruppo offre la possibilità di soddisfare questo bisogno, creando una situazione di “gruppalità” permanente.
Nelle situazioni di gruppo è possibile sperimentare l’apprezzamento e riconoscimento degli altri per le proprie doti personali e professionali e gli individui mostrano questi valori per il bisogno di vederli confermati e vederli crescere dentro di sé.

2) Il bisogno di stima e di autostima e correlato a quello di identità ( le proprie caratteristiche, idee, capacità, aspettative, dunque ciò che riguarda la consapevolezza di sé) e all’esigenza di vederla riconosciuta dagli altri. Più una persona ha una buona consapevolezza di sé, più sarà nella situazione di ricevere feedback dal gruppo, attraverso le opinioni e le percezioni che gli altri riferiscono e riflettono parlando di noi stessi.

3) Il bisogno di sicurezza: il gruppo protegge, copre dalle responsabilità individuali; è dunque un prendere da parte degli individui.

4) Il bisogno di contribuzione : è rappresentato dalla spinta a fare, come la necessità di vedere le proprie realizzazioni e il proprio prodotto reso esplicito e pubblico, di svolgere un’attività il cui esito sia visibile e valorizzato dagli altri e nel quale si veda riflessa la propria personalità, capacità, competenza.

I bisogni del gruppo:
1) Il senso di appartenenza: è il sentimento comune dei membri del gruppo che si riconoscono come unità, in norme, valori, cultura che essi stessi hanno generato.

2) Essere per: è la sicurezza di poter contare sulle risorse messe a disposizione dagli altri, di non essere soli nell’affrontare ed eseguire un compito, di condividere rischi e risultati.
In un gruppo è importante che ci sia un giusto equilibrio tra i bisogni individuali e quelli di gruppo. Il gruppo diventa più efficace se possono essere presenti individualità e gruppo. È necessario che le tendenze alla conformità nel gruppo integrino la diversità individuale.
Occorre sottolineare che spesso il gruppo sviluppa una pressione sugli individui che spinge verso il conformismo affinché essi giudichino, agiscano in accordo con l’opinione e l’azione del gruppo.
L’altro estremo è occupato dall’anti-conformismo: cioè impossibilità dell’individuo di uniformarsi anche minimamente al gruppo e si manifesta come il rifiuto di accordare azioni e giudizi al gruppo.
A metà si pone l’indipendenza in virtù della quale l’individuo esprime opinioni e proposte personali ma è in grado di negoziare all’interno del gruppo la sua posizione con quella del gruppo e degli altri gruppi.
Individualità è sinonimo di utilizzo e valorizzazione delle differenze, arricchimento e creatività; tutto ciò contribuisce alla crescita del gruppo e al buon raggiungimento dell’obiettivo preposto.

Un gruppo funziona bene, se oltre al dare spazio alle differenze individuali, il gruppo è aperto e cioè se ogni membro si dà la possibilità di esprimere le proprie idee e opinioni liberamente, senza sentire di essere giudicati e di doversi di conseguenza difendere, difendere la propria individualità per paura che non venga accettata dagli altri.
Una buona apertura all’interno del gruppo aumenta il disaccordo e il dissenso e permette di gestire e impiegare costruttivamente il conflitto che spesso invece si tende a nascondere e a negare per paura che venga fori chissà che cosa ma anche per la caratteristica del gruppo di proteggere. Ma poi ci si chiede: perché il gruppo ha bisogno di proteggere?
Per funzionare bene è inoltre fondamentale che, tra i membri di un gruppo, sia presente il feedback: è la percezione circa le informazioni di ritorno e il livello di ascolto per le opinioni espresse dagli altri. Conoscere se stessi nel contesto del gruppo significa conoscere come ci si mette in relazione con gli altri. La fonte più importante e significativa per questo apprendimento è il feedback fornito dagli altri membri. Il feedback è una fonte di autoconoscenza alla condizione che il ricevente sia in grado di accettarlo e accoglierlo e che lo consideri un arricchimento per sé.


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domenica 11 gennaio 2009

Il Sistema di Attaccamento secondo la teoria di Bowlby

IL SISTEMA DI ATTACCAMENTO: BOWLBY
L’attaccamento è quel legame fondamentale che lega un essere umano ad un altro. L’attaccamento è mediato dal guardare, dall’ascoltare e dal tenere. Sentire l’attaccamento vuole dire sentirsi sicuri e protetti.
La base sicura è l’atmosfera creata dalla figura di attaccamento, essa crea quel trampolino per esprimere la curiosità e l’esplorazione.
Caratteristiche del Sistema di Attaccamento:
 Ricerca di vicinanza a una figura preferita
 L’effetto “base sicura”
 Protesta per la separazione
Solo dopo 6 mesi si sviluppa il sistema di attaccamento e il bambino ricerca la vicinanza, una base sicura e protesta per la separazione dalla figura di riferimento.
Il comportamento di attaccamento si riferisce tanto a chi fornisce accadimento quanto a chi lo richiede. Infatti una madre che lascia il suo bambino/a con qualcuno che se ne occupa e sente terribilmente la sua mancanza, ne è un esempio.
LO SVILUPPO DEL SISTEMA DI ATTACCAMENTO:
 0-6 mesi:orientamento e pattern di riconoscimento.
 La vista del volto umano: l’attenzione della risposta del sorriso avviene intorno alla IV settimana; è l’inizio della relazione tra il bambino e chi se ne occupa. Il sorriso del bambino evoca un sorriso di rispecchiamento nella madre: quanto più lei risponde al sorriso tanto più il bambino continua a sorridere e così via.
 Lo sguardo reciproco.
 Il tenere (holding): riguarda non solo il sostegno fisico ma l’intero sistema psicofisiologico di protezione, sostegno, cura e contenimento.
 Nella seconda metà dei primi 6 mesi ci sono gli inizi di una relazione di attaccamento; il bambino diventa più discriminante nel suo guardare, ascolta e reagisce in maniera differente alla voce della madre. Si stabilisce un reciproco conoscersi l’un l’altro che è il perno centrale di una relazione madre – bambino sicura.
 6 mesi-3 anni: verso i 7 mesi il bambino comincerà a mostrare ansia per l’estraneo, facendosi silenzioso e aggrappandosi alla madre.
Questi cambiamenti nel bambino coincidono con l’attivazione della locomozione. Il bambino immobile è costretto a rimanere dove si trova invece la madre del bambino mobile deve sapere che il bambino si muoverà verso di lei nei momenti di pericolo e quando è necessario, il bambino ha bisogno di mandare segnali di protesta o di angoscia a sua madre.
Il comportamento di attaccamento è una relazione reciproca.
È definito come “ogni forma di comportamento che appare in una persona che riesce ad ottenere o a mantenere la vicinanza a qualche altro individuo differenziato e preferito”.
Il genitore offre un comportamento di cura che è o dovrebbe essere simmetrico a quello del bambino. Ad esempio in una situazione nuova il bambino ricercherà il contatto visivo con la madre, alla ricerca di suggerimenti che spingono verso l’esplorazione o il ritiro.
Il genitore iperansioso può inibire il comportamento esplorativo del bambino facendolo sentire represso e soffocato.
Il genitore trascurante può inibire l’esplorazione perché non fornisce una base sicura e porta ad un sentimento di angoscia e di abbandono.
 Dai 3 anni in poi: si stabilisce il sistema di attaccamento.
Con l’avvento del linguaggio e l’espandersi della complessità psicologica del bambino, dai 3 ai 4 anni, il bambino può cominciare a pensare ai genitori come persone separate con propri scopi e progetti ed escogitare modi per influenzarli.
Mary Ainsworth “La Strange Situation”:
La Strange Situation è una seduta di 20 minuti in cui la madre e il bambino si trovano in una stanza da gioco con uno sperimentatore. La madre lascia la stanza per 3 minuti, lasciando il bambino con l’estraneo. Poi si riuniscono madre e bambino.
In un momento successivo lasciano la stanza la madre e lo sperimentatore per 3 minuti, lasciando il bambino da solo e poi si riuniscono madre e bambino.
1. Attaccamento sicuro: sono bambini angosciati dalla separazione. Al momento della riunione salutano il loro genitore, ricevono conforto, se ce ne è bisogno e poi tornano a giocare felici e soddisfatti.
2. Attaccamento insicuro-evitante: pochi segni di angoscia e ignorano la madre al momento della riunione, specialmente nella seconda occasione quando lo stress è maggiore. Rimangono guardinghi nei confronti della madre e inibiti nel gioco.
3. Attaccamento insicuro-ambivalente: sono fortemente angosciati dalla separazione e ignorano la madre al momento della riunione. Cercano fortemente il contatto ma resistono scalciando, scalciando e buttando via i giocattoli che gli si danno. Continuano ad alternare stati di rabbia e momenti in cui si stringono violentemente alla madre; il gioco esplorativo è inibito.
4. Attaccamento insicuro-disorganizzato: i comportamenti del bambino sono confusi come per esempio il restare paralizzati o fare movimenti stereotipati quando vengono riuniti ai loro genitori.
Le radici dell’Attaccamento Sicuro e di quello Insicuro:
Bowlby considerava lo sviluppo della personalità essenzialmente in termini di influenza ambientale: le relazioni sono primarie, piuttosto che l’istinto o il patrimonio genetico.
La chiave dell’attaccamento sicuro è un’interazione attiva e reciproca.
L’attaccamento insicuro è il risultato di insufficienti risposte sensibili.


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