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lunedì 24 novembre 2008

La comorbidità del gioco d'azzardo patologico

Comorbidità del gioco d’azzardo patologico
Il gioco d’azzardo patologico è un disturbo psichico a se stante con un alta comorbidità per altre patologie psichiche e si instaura su una personalità disturbata, con possibilità di presenza di disturbi relazionali e sociali. Il funzionamento globale del soggetto può diventare progressivamente disfunzionale, fino ad essere del tutto compromesso.
L’alta comorbidità del gioco d’azzardo patologico riguarda l’alcolismo, l’abuso di sostanze, il disturbo di personalità antisociale, il disturbo di personalità narcisistico-borderline, la depressione, il disturbo bipolare.

Comorbidità depressiva
Per quanto riguarda la comorbidità psichiatrica, è stata segnalata l’elevata incidenza di sintomi depressivi in soggetti che presentano una dipendenza da gioco d’azzardo.
Una buona percentuale di soggetti con gioco d’azzardo patologico riporta una ideazione suicidaria e si ritiene che alcuni di essi abbia tentato almeno una volta il suicidio. Non è ancora del tutto chiaro se la depressione sia una conseguenza della dipendenza da gioco d’azzardo o se il giocatore patologico soffra di un disturbo depressivo.

Comorbidità con gli stati di dipendenza da sostanza
Il gioco d’azzardo patologico e la dipendenza da sostanze presentano nella loro sintomatologia numerose analogie. I criteri di inclusione previsti dal DSM-IV per i due disturbi sono in effetti abbastanza simili: presentano entrambi fenomeni di tolleranza, dipendenza, craving, astinenza, oltre ad un rilevante impatto sulla vita personale, familiare, sociale, finanziaria e legale del soggetto coinvolto. La perdita di controllo è inoltre esperienza comune sia ai soggetti tossicodipendenti sia ai giocatori problematici.
Il craving indica la brama irrefrenabile verso un oggetto o l’impulso di svolgere un comportamento. Esso viene inizialmente vissuto come un impulso che fornisce effetti altamente benefici al soggetto. In una fase successiva il soggetto è assorto sempre più ripetutamente dall’azione compulsiva: il craving è sempre più intenso sia per la mera ricerca di piacere sia per allontanare stati disforici (noia, ansia, depressione, ecc.). I ritmi di abuso si fanno poi serrati e compaiono i primi sintomi da sindrome da astinenza dovuti ai tentativi di esercitare l’autocontrollo. Nel tentativo di resistere al craving si nota l’incapacità dell’individuo di controllare l’impulso. Il dipendente riuscirà a frenarsi solo per breve tempo e tornerà repentinamente ad indulgere nel comportamento distruttivo. L’illusione di potere, l’esaltazione iniziale cede il passo alla constatazione dell’incapacità di controllarsi. In questi momenti sono presenti tutti i sintomi tipici della crisi d’astinenza quali irritabilità, ansietà, insonnia, sudorazione, tremori ecc.
Il concetto di tolerance (tolleranza) descrive la reazione psico-fisica che impone l’aumento delle dosi dell’oggetto della dipendenza o del comportamento. Essa non è sempre presente con continuità ma può andare a sbalzi alternando momenti di maggior controllo e aumentando improvvisamente.

Comorbidità con gli stati di dipendenza da alcol
Molti studi riportano un incidenza di gioco d’azzardo patologico da otto a dieci volte maggiore in pazienti alcol -dipendenti rispetto alla popolazione generale.
Tra il gioco d’azzardo e l’alcolismo esistono molte affinità. Spesso il bere e l’assunzione di droghe accompagna il gioco d’azzardo.
La presenza di patologie relative al gioco d’azzardo, pone questi pazienti ad un maggior rischio di ricadute nell’alcol (in molti casinò le bevande alcoliche sono distribuite gratuitamente), così come li espone al pericolo di un mutamento di dipendenza: è possibile, infatti, che i giocatori sostituiscano lo “stato” che deriva dall’assunzione di alcol, con quello provocato dall’azione del gioco d’azzardo.
Somiglianze forti tra l’alcol-dipendenza e il gioco d’azzardo patologico riguardano la progressività del disturbo, la perdita del controllo, che può essere periodica o continua, la continuazione del comportamento di dipendenza nonostante le conseguenze negative e spesso disastrose sulla qualità della vita. I giocatori d’azzardo associano più facilmente l’uso di alcol alla vincita piuttosto che alla perdita; le vincite al gioco sembrano rafforzare l’uso di bevande alcoliche e ciò spiega perché gioco d’azzardo e alcolismo spesso sembrano andare di pari passo.
Chi beve anche moderate quantità di alcol mentre gioca d’azzardo, tende a giocare più a lungo, spendere più soldi e correre maggiori rischi rispetto a chi non beve. Le ricerche affermano che l’uso di alcol diminuisce la percezione della soglia di rischio.


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martedì 21 ottobre 2008

Le interazioni triadiche

Le interazioni triadiche

L’unità di base in cui sviluppiamo le nostre relazioni intime è il triangolo primario che è costituito dalla madre, dal padre e dal bambino. Così i bambini interiorizzano le relazioni che stabiliscono con i genitori, soprattutto con la madre, creando nelle loro menti dei modelli di tali relazioni.
I triangoli sono in costante movimento e cambiano di minuto in minuto, di ora in ora. I genitori ed il bambino imparano a muoversi all’interno di questo triangolo dove si fonderanno comportamenti individuali e diadici in varie combinazioni triangolari.
Quando è che nasce la “patologia” o si manifesta il sintomo del bambino?
I disturbi psicosomatici di un bambino o disturbi funzionali possono nascere per esempio in un matrimonio di una coppia che non è accettato dalla famiglia di origine di uno dei due, che a sua volta si viene a trovare in una situazione di conflitto di lealtà tra la sua famiglia nucleare e quella di origine. Allora il bambino con il suo disturbo può dirigere l’attenzioni della coppia coniugale che si deve attivare per risolvere la situazione ed evitare così il conflitto.
La letteratura sulla terapia familiare parla di “triangoli perversi” (Haley, 1971) e “triangoli rigidi” ( Minuchin, 1975), situazioni in cui le risorse del bambino sono utilizzate per regolare il conflitto coniugale. Facciamo alcuni esempi: il bambino viene preso in una disputa tra i genitori, incoraggiato velatamente a prendere le parti e a colludere con uno dei genitori contro l’altro, finendo in una posizione di ruolo che non è la sua e cioè in una posizione generazionale invertita, come la direbbe BoszormenyiNagy (1973), di “parentificazione”. Un altro esempio è quando il bambino può essere spinto ad assumere una posizione di “capro espiatorio” o di persona malata o vulnerabile, per evitare il conflitto coniugale.
I bambini imparano molto presto a muoversi all’interno delle relazioni con i genitori e percepiscono anche molto presto quando c’è bisogno di lui, di lui che si trova a “sacrificare” il suo ruolo pur di tenere uniti mamma e papà.
Si sente molto spesso dire “ma è ancora troppo piccolo per accorgersi che tra me e mio marito non scorre buon sangue……”; ma non è assolutamente vero, anche il bambino molto piccolo è in grado di percepire quando c’è qualcosa di “strano” ed è in grado, attraverso le sue risorse, di prendersi la briga di sistemare la situazione. E da qui nasce il sintomo!.


Bibliografia

-Byng-Hall, J. (1995). Le trame della famiglia. Attaccamento sicuro e cambiamento sistemico. Raffaello Cortina Editore, Milano 1998.

-Fivaz-Depeursinge, E., Corboz-Warnery, A. Il triangolo primario. Le prime interazioni triadiche tra padre, madre e bambino. Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.

-Minuchin, S. (1978). Famiglie psicosomatiche. Astrolabio, Roma 1980.

-Norsa, D., Zavattini, G.C., (1997). Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia. Raffaello Cortina Editore, Milano.

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sabato 16 agosto 2008

Il Disturbo ossessivo-compulsivo

Il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC)

In psicopatologia il termine “ossessione” indica la condizione di essere “sotto assedio” contro la propria volontà e al tempo stesso quella di essere posseduti da un’entità estranea.
Nel linguaggio psicopatologico l’ossessione è definita come una “rappresentazione mentale” che irrompe ed è contro la volontà del soggetto.
Si può parlare di ossessione se si presentano le seguenti caratteristiche:
1. presentarsi continuamente e in modo invasivo nella mente del soggetto, disturbando il corso normale dei suoi pensieri e limitando le sue normali attività. L’impulso si può definire ossessivo se si presenta nei pensieri più volte al giorno (iterazione);
2. essere vissuta dal soggetto come estranea ai suoi pensieri e sentimenti, inaccettabile e incompatibile (estraneità);
3. essere incoercibile, cioè il soggetto è incapace di allontanare o contrastare il pensiero ossessivo (incoercibilità).

Il termine “compulsione” implica il concetto di essere costretti a mettere in atto dei comportamenti contro la propria volontà.
Secondo il DSM-IV la compulsione è definita dalle seguenti caratteristiche:
1. sono comportamenti ripetitivi in risposta ad una ossessione o secondo determinate regole;
2. l’azione serve a contrastare eventi temuti o a neutralizzare una situazione di disagio del soggetto;
3. la persona riconosce che il suo comportamento è eccessivo o irragionevole;
4. pur sperimentando una diminuzione della tensione, il soggetto non prova alcun piacere nella messa in atto del comportamento.

Vella, Siracusano 1991, distinguono tre gruppi di sintomi che definiscono il disturbo ossessivo compulsivo:
1. il soggetto è invaso da idee ossessive che si impongono alla sua mente malgrado egli cerchi di opporsi. Sono rappresentazioni mentali che si intromettono nella coscienza, contro la volontà dell’individuo e che persistono tenacemente, tanto che risulta impossibile scacciarle o modificarle con il ragionamento. Spesso vi è un intenso senso di colpa;
2. il contenuto di coscienza intrusivo e persistente (il dubbio, l’ordine, la pulizia) genera una esistenza oppositiva e la messa in atto di strategie di controllo che si esprimono attraverso le compulsioni (atti ripetitivi finalizzati a ridurre l’ansia e a far persistere l’ossessione);
3. sul piano affettivo il soggetto sperimenta sentimenti di depressione. Negli ossessivi appare alterato il senso del reale, si manifesta un’assenza di decisione, di risoluzione volontaria, di fiducia e di attenzione, l’incapacità di provare un sentimento adeguato in rapporto alla situazione il ritorno verso l’immaginario.

Tra i disturbi correlati al disturbo ossessivo compulsivo troviamo il disturbo del controllo degli impulsi (cleptomania, tricotillomania, piromania, gioco d’azzardo patologico), i disturbi sessuali (parafilie: esibizionismo, voyeurismo, feticismo), i disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia), i disturbi da tic, i disturbi dissociativi. Le forme patologiche caratterizzate da un discontrollo degli impulsi hanno come caratteristica che gli impulsi sono egosintonici e la loro messa in atto, oltre a ridurre lo stato di tensione, produce nel soggetto un senso di soddisfazione e piacere.

Trattameno psicoterapico: un approccio integrato

1. Terapia cognitivo comportamentale
2. Terapia sistemico relazionale
3. Terapia farmacologia

1. In base alla mia esperienza con soggetti affetti da DOC, la terapia cognitivo-comportamentale aiuta a ridurre la frequenza di pensieri ossessivi e di conseguenza di compulsioni, sviluppando strategie e tecniche che individuano e mettono alla prova le “distorsioni cognitive” del soggetto.
I pensieri automatici dei paziento ossessivo-compulsivi hanno alla base determinate convinzioni o credenze su se stessi e sul mondo:
- esistono comportamenti, decisioni od emozioni giusti e sbagliati
- commettere un errore significa aver fallito, meritare le critiche
- il fallimento è intollerabile
- devo avere il totale controllo del mio ambiente e di me stesso
- la perdita di controllo è intollerabile e pericolosa
- Sono così potente da innescare o prevenire venti catastrofici mediante rituali magici o
ruminazioni ossessive.

2. Dopo aver lavorato sul sintomo, la compulsione, si ricorre al lavoro sul contesto familiare del soggetto. L’obiettivo è quello di lavorare sulle dinamiche relazionali disfunzionali che possono aver dato origine o aver alimentato il sintomo. Come, quando il DOC di un membro della famiglia si è manifestato e in che modo influisce sulla stessa e sui singoli? Questo ci aiuta a capire le origini e la natura del sintomo. Se non cambiano le “regole” della famiglia di un soggetto portatore di una patologia, il lavoro psicoterapico non è completo.
Le reazioni dei membri della famiglia possono essere svariate:
- i genitori si irrigidiscono in un ruolo oppositivo verso i sintomi con richieste molto elevate e con scarsa tolleranza;
- i genitori colludono con i sintomi ossessivo-compulsivo. Sono famiglie “invischiate”, con difficoltà a mettere confini e sono caratterizzate da evitamento del conflitto;

3. Infine la valutazione diagnostica da parte di uno psichiatra, si decide se iniziare un
trattamento farmacologico.
Attualmente sono considerati farmaci di prima scelta nella cura del DOC:
- gli antidepressivitriciclici
- gli antidepressivi serotoninergici (inibitori selettivi della serotonina)

Nel caso di un trattamento farmacologico è necessario:
- formulare un diagnosi precisa
- valutare l’eventuale comorbilità con altri disturbi psichiatrici
- scegliere il dosaggio più idoneo
- programmare la durata del trattamento e monitorare la corretta esecuzione della terapia mediante controlli periodici
- programmare la sospensione graduale della terapia
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mercoledì 9 luglio 2008

La Co-dipendenza

La co-dipendenza

Una particolare forma di “dipendenza affettiva” è quella che è stata definita “co-dipendenza” e che è stata inizialmente osservata nei contesti relazionali legati alla vita di coppia di alcolisti o tossicodipendenti. Tale problematica coincide con una condizione multidimensionale che comprende varie forme di sofferenza o annullamento di sé, associati alla focalizzazione delle proprie attenzioni ed energie sui bisogni e comportamenti di un partner dipendente da sostanze o da comportamento (es. gioco d’azzardo patologico). Il motivo per cui questa forma di dipendenza affettiva è stata inizialmente osservata, paradossalmente non riguardava il benessere di chi ne fosse affetto, bensì l’osservazione della capacità che la co-dipendenza ha di mantenere nello stato patologico quello che viene definito il “paziente designato”, ossia colui che sembra, ma non è, l’unico paziente bisognoso di aiuto in quanto affetto da tossicodipendenza, alcolismo o da altre forme di dipendenza (Norwood R.; 1985).
La co-dipendenza , in realtà, ha in comune con le altre dipendenze affettive quella tendenza a rinunciare a tutti i propri bisogni e desideri, disconoscendoli e negandoli, fino a portare nel partner di alcuni dipendenti, alla strutturazione di un “falso Sé” e quindi di una “falsa vita”, una realtà fatta di scelte che non rispondono ai propri bisogni interiori e che corrisponde ad una condizione denominata “malattia del Sé perduto” (Whitfield, 1997). La conseguenza di tutto ciò spesso è il raggiungimento di una debolezza dell’Io nella persona che manifesta co-dipendenza, un Io che diviene vulnerabile e che sopravvive attraverso la tendenza progressiva a cercare di dimostrare la sua forza e a nutrire l’autostima attraverso il “controllo” del partner dipendente.

Nel corso della mia esperienza con pazienti affetti da dipendenza da gioco d’azzardo, ho avuto modo di conoscere il co-dipendente. La maggior parte è di sesso femminile e sono le mogli, compagne, mamme e figlie delle persone con dipendenza da gioco d’azzardo.
Perché co-dipendenti; lo dice la parola stessa e cioè “dipendono” da chi a sua volta dipende (nel caso specifico dal gioco). Dipendono nel senso che, come il giocatore patologico è “ossessionato” dal gioco e non vede niente altro intorno a sé, compresa la vita affettiva, lavorativa e sociale, così la persona co-dipendente è “ossessionata” dal comportamento della persona che gioca.
Il co-dipendente è apparentemente molto forte, ha un ruolo importante e centrale nella famiglia d’origine e in quella attuale (nel passato e nel presente); si mostra sempre dedito agli altri, volto a “sacrificare” la propria vita per il genitore, il figlio, il marito. Sa essere molto attento al comportamento dell’altro, tanto da mostrarsi invadente e controllante. Tende a farsi carico di tutta la responsabilità della famiglia, appropriandosi di ruoli che non sono i propri. Per esempio: una donna che fa da mamma ai propri genitori e al proprio compagno, sacrifica il suo ruolo di figlia e di moglie. Se inizialmente tutto ciò gratifica il co-dipendente che si sente in una posizione di prestigio, a lungo andare sperimenta la sofferenza per il “a me chi ci pensa” o “chi si prende cura di me”. Ma questa consapevolezza verrà raggiunta con l’ausilio di un percorso individuale.
Nel corso della psicoterapia con pazienti che presentano dipendenza da gioco patologico, è fondamentale coinvolgere la famiglia e soprattutto coinvolgere la persona “co-dipendente”. Il coinvolgimento comprende un percorso individuale che ha come obiettivo primario, quello di riappropriarsi di se stessi in modo “sano”.

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martedì 24 giugno 2008

La famiglia del tossicodipendente

La famiglia del tossicodipendente secondo un’ottica relazionale.
Il disagio psichico di uno dei membri costituisce il segnale di un malessere più esteso che riguarda il gruppo familiare rispetto ai compiti evolutivi del ciclo vitale.
In questa prospettiva il fenomeno della tossicodipendenza è visto come un modo per perpetuare la storia familiare in maniera ripetitiva e stereotipata, per cristallizzare le posizioni dei singoli membri in una configurazione relazionale immobile e coartata.
Per quanto riguarda i ruoli all’interno di queste famiglie, si può parlare di “delega accuditiva”. È quel fenomeno secondo cui i soggetti, ad un certo punto della loro infanzia, vengono affidati a parenti più o meno prossimi che li prendono in carico sia sotto l’ aspetto delle cure materiali che di quelle affettive ed educative.
Allora cosa succede: di solito la madre, essendo impegnata su un fronte emotivo diverso da quello con il figlio, segue le mansioni accuditive in modo apparentemente ineccepibile ma in realtà più funzionali ai propri desideri di adeguatezza sociale e di ricerca di conferme da parte dei propri genitori (non è avvenuto lo svincolo dalle famiglie d’origine, indispensabile per la costruzione di un altro sé familiare). Dunque l’effetto immediato di questo “stallo emotivo” ha favorito una ripetizione di situazioni simili vissute sia nella famiglia d’origine che in quella di elezione.
La figura paterna sembrerebbe quasi impotente rispetto al proprio ruolo ed estromesso all’interno del rapporto coniugale.
Nei genitori è emersa una scarsa interiorizzazione di quei ruoli necessari ad accogliere i propri figli come altri da sé. Il rapporto genitori-figli è basato su una confusione di confini generazionali che ha impedito ai genitori di portare a termine il loro mandato generazionale e ai figli di vivesi come persone con una propria identità.

Il figlio tossicomane
La condizione di immobilità e di resistenza al cambiamento tipica di queste famiglie, si innesca in uno specifico stadio della storia della famiglia, ovvero nel momento in cui il figlio comincia a richiedere maggiori spazi di autonomia, in corrispondenza della fase adolescenziale.
Il drogarsi assume una duplice funzione relazionale: da una parte permette al tossicomane di essere distante, indipendente ed individuato, dall'altra lo rende dipendente in termini di danaro, di mantenimento e fedele alla famiglia.
Malgrado quindi una dichiarata ansia di indipendenza resta pur sempre assodato che la maggioranza dei tossicomani tende a mantenere stabili legami con l'ambiente familiare restandovi a vivere a lungo nel tempo o comunque mantenendo contatti più di quanto non facciano coetanei non tossicodipendenti. Nella fase in cui si dovrebbe attuare lo svincolo adolescenziale, l’esterno viene avvertito come minaccioso e si ha la percezione della casa come microcosmo sociale in cui rinchiudersi. Il male è nel sociale e la casa rappresenta una gabbia dorata, che da un lato è un contenitore rassicurante, dall’altro però è altamente asfissiante.
Per il tossicodipendente l’uso coatto della sostanza, con le sue qualità anestetizzanti, può forse rappresentare il ritorno ad uno stato in cui le differenziazioni me-non me, interno ed esterno, non hanno alcun significato e quindi non possono essere pensate. La tossicodipendenza va dunque a rappresentare uno spazio altro rispetto a questo microcosmo saturo che è la casa, in cui poter immaginare di esperire una qualche forma di pensiero.

I processi di triangolazione e le tipologie
L’abuso di droga può servire a mantenere insieme i genitori o a raggiungere l’obiettivo di far interrompere un litigio tra loro.
Si può parlare di una frequente triangolazione del paziente in un rapporto preferenziale col genitore che sente più in difficoltà in una coppia in stallo. Egli ha il ruolo, emotivamente difficile, di mediare la tensione latente tra i genitori e di colmare artificialmente un vuoto affettivo. In questi giochi di triangolazione il figlio svolgerebbe la funzione di contenimento e di mascheramento di conflitti genitoriali latenti.
Si tratta di una situazione emotiva di estrema ambivalenza: da un lato può sentirsi al centro di gratificazione e privilegi, dall’altro stabilisce un vincolo rigido di dipendenza dalle figure genitoriali che, durante la crisi adolescenziale, entra drammaticamente in collisione con i nuovi emergenti bisogni di autonomia e di individuazione. Naturalmente l’insorgere della malattia risolve il problema perché il paziente continua ad assolvere il compito assegnatole e i genitori, impegnati nella cura, rimandano la ricerca di nuove soluzioni per superare i motivi di insoddisfazione reciproca.

Legami familiari tra delega e lealtà familiari
Il paziente sembra accentrare su di sé le tensioni familiari poiché è demandato a lui di rappresentare un centro focale intorno a cui la famiglia si aggrega. Il tentativo del paziente di contenere le tensioni familiari trova significato nel mantenere la coesione della famiglia a tutti i costi, esorcizzando le minacce di rottura dei legami, cioè i timori della disgregazione dell’unità familiare in caso di esplicitazioni del conflitto o aumento delle distanze.
Il tossicomane e la famiglia hanno difficoltà a trattenere i contenuti mentali “emozionanti” che anzi vengono trasformati in agiti. Le emozioni appaiono sotto forma di aggressività fisica o verbale oppure come vere e proprie angosce nei confronti della vicinanza fisica, vissuta nei rapporti con i propri familiari.
Tutto il sistema familiare sembra vivere sotto l’ombra di una minaccia costante e incombente di un’improvvisa catastrofe che può disintegrare il mondo: l’irruzione dell’emozione profonda.
Se si sta dentro la famiglia e si sente, si pensa, allora vengono fuori dolori così grandi che c’è bisogno di morfina “stare dentro ma non pensare; stare dentro ma non affrontare i problemi che sonno molto dolorosi”.
La matrice mentale sembra essere e segregamente viversi, come molto carente, molto poco attrezzata a pensare le emozioni e gli affetti. A ciò naturalmente si contrappone una struttura di pensiero che può soltanto tentare di esercitare un rigido controllo su tutti gli accadimenti.
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giovedì 5 giugno 2008

La coppia. la scelta del partner

La coppia. La scelta del partner

La condizione della vita di una coppia è quella, per ciascuno dei due partner, di riaffermare e ridefinire le differenze e cioè la necessità da parte di ciascuno dei due di mantenere la propria specificità differenziata dall’altro. Questa è la condizione affinché l’incontro tra due persone possa fornire sufficienti motivi di interesse e di stimolo.
Lo stato interno di una persona è regolato tramite il rapporto con l’altro, e tale stato dovrà essere negoziato e rinegoziato attraverso le varie vicende del ciclo vitale. Con il tempo si vengono a stabilire, nella relazione, un insieme di regole e di abitudini condivise, una rete di emozioni, desideri, bisogni e aspettative con cui ciascuno dei due partner alimenta il legame di intimità con l’altro; si verrà a sviluppare così quel senso del noi che non è altro che l’espressione di un sentimento di reciprocità condivisa.
L’intensità di attaccamento negli adulti o in una coppia dipende dal gioco della reciproca interazione tra i vari modelli operativi interni dei due partner. Tali modelli corrispondono alla rappresentazione di un evento o di storie, intese come espressione delle varie relazioni interne e del loro portato affettivo. Le relazioni interne all’individuo si vengono a proporre in diversi momenti del ciclo vitale. Per esempio l’inizio della vita di coppia ci mette a confronto con le dinamiche della coppia interiorizzata dei genitori e cioè di quella relazione reale tra i genitori cui il bambino assiste. Tale relazione comprende le fantasie e le attese su di essa e sarà facilitante o non facilitante la capacità di instaurare rapporti futuri di coppia.
Può succedere che la relazione interna contenga aspetti negativi e che quindi la scelta dell’altro sia dettata dalla ricerca di “riparare” a quegli aspetti con la relazione reale (quella con il partner). Parliamo di un tentativo riparativo di una ferita affettiva.
L’altro, dunque, può funzionare o da aspetto collusivo, mantenendo la rigidità di un sistema, di un equilibrio che può far paura se non lo si mantiene tale (tutto ciò porta ad una mancanza di benessere sia sul piano individuale che su quello della coppia, con una relazione all’insegna dell’infelicità e della ripetitività) o da aspetto di riparazione e di disconferma delle proprie aspettative di un modello operativo interno disadattivo (ciò è indice di cambiamento di una condizione stagnante).
Se prevale l’aspetto collusivo, si attiva quel meccanismo di difesa intorno a temi traumatici del passato e si proteggono gli aspetti di fragilità della persona.
Lo scopo di una terapia di coppia prevede un processo di elaborazione legato ad un intervento interpretativo che porta, sia ad una differenziazione tra una rappresentazione di coppia nella realtà e una interna, sia alla comprensione di atteggiamenti ripetitivi ad usare i rapporti reali come conferma di un’aspettativa.
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martedì 1 aprile 2008

La dipendenza da Internet

Dipendenza da Internet
L’incremento dell’accesso a questa tecnologia ha comportato l’insorgere e il proliferare di disturbi del comportamento.
La persona viene assorbita totalmente dall’esperienza virtuale, arrivando a sviluppare una vera e propria dipendenza.
L’Internet Addiction Disorder (IAD) rappresenta una modalità di espressione di disagio attraverso un prodotto tecnologico. La persona che ha sviluppato una dipendenza da Internet rimane collegata per ore ed ore, con una perdita totale della cognizione del tempo.
Goldberg nel 1995 propone la prima definizione dei Disturbi legati all’uso di Internet, come una “dipendenza da comportamento”, prendendo in prestito i criteri del DSM IV inerenti la categoria delle dipendenze da sostanze.

Criteri diagnostici DSM IV
Tolleranza:
1. Bisogno di aumentare la quantità di tempo di collegamento ad Internet per raggiungere l’eccitazione desiderata
2. Un effetto marcatamente diminuito con l’uso continuato dello stesso tempo in Internet

Astinenza:
1. Interruzione o riduzione dell’uso prolungato e pesante di Internet. Due o più dei seguenti sintomi conseguenti l’interruzione del comportamento:
 Agitazione psicomotoria
 Ansia
 Pensiero ossessivo a Internet
 Fantasie o sogni su Internet
 Movimenti volontari o involontari di battitura a macchina con le dita
 L’uso di Internet o di simili servizi in rete viene impiegato per alleviare o evitare sintomi di astinenza
 Si accede spesso ad Internet con più frequenza e per periodi più lunghi di quanto era stato preventivato
 Persistente desiderio e tentativi falliti di cessare o controllare l’uso di Internet
 Una grande quantità di tempo spesa in attività legate all’uso di Internet (prenotazioni online, downloads di materiale etc…)

Young (1998), mostra come esista una relazione significativa da dipendenza da Internet e depressione: alti livelli di depressione sono associati all’abuso della Rete. L’autore sostiene che alcune caratteristiche dei soggetti come bassa autostima, scarsa motivazione, paura di essere rifiutati e il bisogno di approvazione, possano contribuire all’incremento nell’uso di Internet. È possibile che i soggetti depressi si rifugino nella realtà virtuale per scappare dalle difficoltà della rete.

Le forme di dipendenza da Internet
1. Cybersex addiction
2. Cyber relational addiction
3. Net compulsino
4. Information overload
5. Computer addiction


1.Cybersex addiction
Il sesso virtuale comprende tutte quelle attività che si possono svolgere i Rete e che provocano un’eccitazione sessuale, come la fruizione di materiale pornografico etc.
Secondo le ricerche della Young, la dipendenza da sesso virtuale è uno dei disturbi più diffusi tra coloro che presentano una dipendenza da Internet.
Il rapporto di uomini dipendenti rispetto alle donne è di 5 a 1 ma il coinvolgimento delle donne è in crescita.
Gli uomini si collegano alla Rete soprattutto per guardare foto pornografiche mentre le donne sono più interessate alle chat erotiche, amano parlare di sesso e cercano qualche sorta di interazione. Ciò consentirebbe loro di nascondere il proprio aspetto fisico, di sentirsi più disinibite e libere di manifestare il proprio piacere nel fare sesso. Gli uomini non sperimenterebbero ansia da prestazione, evitando così la ieaculazione precoce o l’impotenza.
Le caratteristiche di Internet per il coinvolgimento sessuale sono:
• Anonimità: protegge l’utente e gli permette di esprimersi liberamente
• Convenienza: si riferisce alla disponibilità dei siti e chat room a contenuto pornografico. La Rete è uno strumento molto comodo perché permette di collegarsi tranquillamente da casa, mantenendo una certa privacy.
• Evasione: l’eccitazione che si sperimenta, provoca una sorta di fuga mentale, un’evasione dai problemi della vita quotidiana.

2. Cyber relational addiction
La dipendenza da relazioni virtuali si può definire come il bisogno di istaurare relazioni amicali o amorose con le persone incontrate online.
La dipendenza affettiva si manifesta nel bisogno i creare una relazione affettiva molto intima, in cui il soggetto divine dipendente da una persona significativa che lo protegge e si prende cura di lui.
Vengono utilizzate email, le chat room (sono stanze senza confini reali, il linguaggio e i personaggi sono le uniche entità che costituiscono lo spazio virtuale).

3. Net compulsion
La Rete è un mezzo attraverso il quale si possono mettere in atto diversi tipi di comportamenti compulsivi:
• Gioco d’azzardo
• Partecipazione ad aste ondine
• Commercio in Rete

Queste attività hanno diverse caratteristiche in comune quali la competizione, il rischio, l’eccitazione immediata.

4. Information overload
Il termine significa letteralmente “sovraccarico cognitivo”. È un bisogno incontrollato di reperire informazioni sulla Rete. I soggetti sperimentano un senso di eccitazione quando riescono a trovare le informazioni che cercavano.
Criteri per riconoscere l’ Information overload (Cantelmi e D’Andrea 2000):

• Hanno bisogno di passare molto tempo in Rete per trovare notizie, aggiornamenti o qualsiasi alt informazione
• Ha ripetutamente tentato ma senza successo di controllare, ridurre o interrompere l’attività di ricerca
• Perdura in questa attività nonostante incorra in problemi sociali, familiari etc.

5. Computer addiction
Si riferisce alla pratica dei giochi interattivi virtuali (MUD’s), nei quali i partecipanti giocano contemporaneamente ed interagiscono tra di loro. Essi sono molto coinvolgenti perché consentono di nascondere la propria vera identità e costruirsene un’altra. Il personaggio virtuale viene investito dai desideri e dalle illusioni del soggetto che lo sceglie.
La Rete da la possibilità di essere ciò che si desidera, soprattutto per le persone timide che vorrebbero cambiare la loro identità.

La dipendenza da Internet si instaura soprattutto negli adolescenti. Molti ragazzi oggi come oggi preferiscono trascorrere la maggior parte del loro tempo sulla rete con le chat, i giochi di ruolo etc. Il rischio è che passando troppo tempo su Internet, arrivano a trascurare le uscite con gli amici, con i partner, gli hobbies, si perde sempre di più la comunicazione con i familiari, insomma si rischia di rimanere “intrappolati” in un mondo che non è reale, si esce dalla realtà quotidiana.
Agli occhi di un adolescente questo mondo però è più leggero, meno pesante, lontano dalle responsabilità quotidiane, dalle sofferenze di una vita ingiusta e allora perché no?
Penso che per il trattamento di questa dipendenza la prevenzione e l’informazione siano di fondamentale importanza ma penso anche che la famiglia sia una grossa risorsa e che vada anche educata a riconoscere i segnali di disagio che manda un figlio adolescente.
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Adolescenti e Gioco

Adolescenti e gioco d’azzardo

Il gioco è un’attività che fin dalla nascita si vede praticare dai bambini.
Si gioca per il piacere di farlo, senza che per altro questo comportamento venga indotto o forzato dall’esterno.
In condizioni ambientali favorevoli, il gioco produce eccitazione e stimola la fantasia e la creatività.
Grazie al gioco tutti noi abbiamo imparato a rispettare le prime regole (regole di gioco) che abbiamo in seguito generalizzato nella vita sociale, con gli altri; abbiamo appreso i diversi ruoli e giocato al “far finta di”.
Fin qui abbiamo parlato di gioco sano e giusto ma quando non si gioca più per il piacere di farlo o per il piacere del divertimento o per quello di passare un momento per stare in compagnia dell’ altro e cioè quando si supera la soglia della normalità, in quel momento dobbiamo cominciare a preoccuparci.

Ma gli adolescenti chi sono?

Tutti noi siamo stati adolescenti e sappiamo benissimo che è stato un periodo non facile a causa di quei cambiamenti che si mettono in moto dal punto di vista fisiologico, affettivo, relazionale con le figure più importanti quali i familiari, il gruppo dei pari etc. E poi l’adolescenza segna quel passaggio, quella porta di ingresso al mondo degli adulti!
L’adolescenza è intesa come fase evolutiva con lo scopo dell’adempimento di compiti evolutivi, quali il raggiungimento dell’autonomia e dell’identità adulta, della piena socializzazione lavorativa e familiare.

Il rischio in adolescenza

“Il rischio è parte integrante della vita dell’uomo e sottende ogni tendenza evolutiva verso il raggiungimento di nuovi traguardi di sviluppo…
…La curiosità esplorativa, la sperimentazione, il cimentarsi e il mettersi alla prova, il piacere di riuscire ad avere controllo sulla realtà, come anche la sensazione di eccitazione e di brivido, sono per così dire comportamenti rischiosi normali, ossia che accompagnano l’uomo nella sua crescita ed evoluzione...
È noto il ruolo del narcisismo negli adolescenti, di quell’egocentrismo che spesso sfocia nell’illusione di essere invulnerabili: l’idea di essere al centro del mondo, di avere una “favola personale” ,distoglie l’attenzione dalla concretezza, misconoscendo i limiti, in quanto soffocanti.
Il bisogno di sentirsi al centro dell’attenzione può trovare nei comportamenti rischiosi eclatanti il suo mezzo di realizzazione, specialmente là dove vi siano insicurezze, fragilità e confusione.
Rischiare significa intraprendere un’azione che potrebbe, con una certa probabilità, avere conseguenze negative.
Il rischio assume così un valore compensatorio di lacune narcisistiche e relazionali; è un atto illusoriamente magico per risolvere le proprie debolezze e frustrazioni che inquinano la quotidianità.
Questo vale soprattutto per gli adolescenti cosiddetti vulnerabili, ossia particolarmente sensibili ai vissuti di incertezza, alle conferme da parte del contesto, che collezionano stati di sofferenza come vergogna, timore, rabbia. È a questo punto che l’azione rischiosa rappresenta una via di fuga, per riscattarsi dallo smacco, per rivalutarsi di fronte a sé e agli altri.




UNA PARTICOLARE CONDOTTA RISCHIOSA: IL GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO NEGLI ADOLESCENTI

Da alcuni anni, anche nel nostro paese, le macchinette (slot machine) rappresentano la forma di gioco predominante tra i giovani.
Alla presenza massiccia di tale gioco sul territorio si aggiunge il sentimento di noia di molti giovani, la necessità di ammazzare il tempo, il voler non essere da meno dei compagni, il desiderio di vincere qualche soldo.
Negli ultimi anni c’è stato un aumento del gioco d’azzardo negli adolescenti, probabilmente alcuni fattori hanno contribuito all’aumentare del fenomeno come:

• la crescente liberalizzazione, la maggiore tolleranza se non addirittura l’incoraggiamento verso il gioco d’azzardo come attività innocua;
• la ritardata presa di coscienza del problema;
• la scarsa attenzione nei confronti di programmi di informazione per la creazione di una consapevolezza collettiva dei problemi legati al gioco.

Nella mia esperienza con gli adolescenti attraverso progetti di prevenzione in ambito scolastico, posso dire che è molto difficile entrare nel loro mondo ed è altrettanto difficile utilizzare il loro linguaggio. Ritengo che la prevenzione sia uno strumento importante soprattutto in questa fase critica ma penso anche che non è per niente facile lavorare con questa fascia di età.
Per gli adolescenti è difficile ammettere di avere un problema o di vedere il problema, figuriamoci, è già difficile per un adulto prendere la consapevolezza e ammettere di avere un problema di gioco!. È per tale ragione che ritengo fondamentale imparare a calarsi nei panni di un adolescente, entrare a conoscere quel loro mondo, avvicinarsi a loro, ancor prima di iniziare nel volerli coinvolgere in un programma di prevenzione che quasi sempre risulta loro noioso o rappresenta il modo di non fare lezione in quella ora. A volte ho sentito dire loro “e quanto siete esagerati, ora anche giocare è un problema; che volete che sia farsi una partita alle macchinette!!”.
Penso che non dobbiamo mai smettere di “fare prevenzione”, di informare, di far conoscere e penso anche che non dobbiamo arrenderci di fronte alle difficoltà che incontriamo con gli adolescenti.
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La famiglia del tossicodipendente

La famiglia del tossicodipendente secondo un’ottica relazionale.
Il disagio psichico di uno dei membri costituisce il segnale di un malessere più esteso che riguarda il gruppo familiare rispetto ai compiti evolutivi del ciclo vitale.
In questa prospettiva il fenomeno della tossicodipendenza è visto come un modo per perpetuare la storia familiare in maniera ripetitiva e stereotipata, per cristallizzare le posizioni dei singoli membri in una configurazione relazionale immobile e coartata.
Per quanto riguarda i ruoli all’interno di queste famiglie, si può parlare di “delega accuditiva”. È quel fenomeno secondo cui i soggetti, ad un certo punto della loro infanzia, vengono affidati a parenti più o meno prossimi che li prendono in carico sia sotto l’ aspetto delle cure materiali che di quelle affettive ed educative.
Allora cosa succede: di solito la madre, essendo impegnata su un fronte emotivo diverso da quello con il figlio, segue le mansioni accuditive in modo apparentemente ineccepibile ma in realtà più funzionali ai propri desideri di adeguatezza sociale e di ricerca di conferme da parte dei propri genitori (non è avvenuto lo svincolo dalle famiglie d’origine, indispensabile per la costruzione di un altro sé familiare). Dunque l’effetto immediato di questo “stallo emotivo” ha favorito una ripetizione di situazioni simili vissute sia nella famiglia d’origine che in quella di elezione.
La figura paterna sembrerebbe quasi impotente rispetto al proprio ruolo ed estromesso all’interno del rapporto coniugale.
Nei genitori è emersa una scarsa interiorizzazione di quei ruoli necessari ad accogliere i propri figli come altri da sé. Il rapporto genitori-figli è basato su una confusione di confini generazionali che ha impedito ai genitori di portare a termine il loro mandato generazionale e ai figli di vivesi come persone con una propria identità.

Il figlio tossicomane
La condizione di immobilità e di resistenza al cambiamento tipica di queste famiglie, si innesca in uno specifico stadio della storia della famiglia, ovvero nel momento in cui il figlio comincia a richiedere maggiori spazi di autonomia, in corrispondenza della fase adolescenziale.
Il drogarsi assume una duplice funzione relazionale: da una parte permette al tossicomane di essere distante, indipendente ed individuato, dall'altra lo rende dipendente in termini di danaro, di mantenimento e fedele alla famiglia.
Malgrado quindi una dichiarata ansia di indipendenza resta pur sempre assodato che la maggioranza dei tossicomani tende a mantenere stabili legami con l'ambiente familiare restandovi a vivere a lungo nel tempo o comunque mantenendo contatti più di quanto non facciano coetanei non tossicodipendenti. Nella fase in cui si dovrebbe attuare lo svincolo adolescenziale, l’esterno viene avvertito come minaccioso e si ha la percezione della casa come microcosmo sociale in cui rinchiudersi. Il male è nel sociale e la casa rappresenta una gabbia dorata, che da un lato è un contenitore rassicurante, dall’altro però è altamente asfissiante.
Per il tossicodipendente l’uso coatto della sostanza, con le sue qualità anestetizzanti, può forse rappresentare il ritorno ad uno stato in cui le differenziazioni me-non me, interno ed esterno, non hanno alcun significato e quindi non possono essere pensate. La tossicodipendenza va dunque a rappresentare uno spazio altro rispetto a questo microcosmo saturo che è la casa, in cui poter immaginare di esperire una qualche forma di pensiero.

I processi di triangolazione e le tipologie
L’abuso di droga può servire a mantenere insieme i genitori o a raggiungere l’obiettivo di far interrompere un litigio tra loro.
Si può parlare di una frequente triangolazione del paziente in un rapporto preferenziale col genitore che sente più in difficoltà in una coppia in stallo. Egli ha il ruolo, emotivamente difficile, di mediare la tensione latente tra i genitori e di colmare artificialmente un vuoto affettivo. In questi giochi di triangolazione il figlio svolgerebbe la funzione di contenimento e di mascheramento di conflitti genitoriali latenti.
Si tratta di una situazione emotiva di estrema ambivalenza: da un lato può sentirsi al centro di gratificazione e privilegi, dall’altro stabilisce un vincolo rigido di dipendenza dalle figure genitoriali che, durante la crisi adolescenziale, entra drammaticamente in collisione con i nuovi emergenti bisogni di autonomia e di individuazione. Naturalmente l’insorgere della malattia risolve il problema perché il paziente continua ad assolvere il compito assegnatole e i genitori, impegnati nella cura, rimandano la ricerca di nuove soluzioni per superare i motivi di insoddisfazione reciproca.

Legami familiari tra delega e lealtà familiari
Il paziente sembra accentrare su di sé le tensioni familiari poiché è demandato a lui di rappresentare un centro focale intorno a cui la famiglia si aggrega. Il tentativo del paziente di contenere le tensioni familiari trova significato nel mantenere la coesione della famiglia a tutti i costi, esorcizzando le minacce di rottura dei legami, cioè i timori della disgregazione dell’unità familiare in caso di esplicitazioni del conflitto o aumento delle distanze.
Il tossicomane e la famiglia hanno difficoltà a trattenere i contenuti mentali “emozionanti” che anzi vengono trasformati in agiti. Le emozioni appaiono sotto forma di aggressività fisica o verbale oppure come vere e proprie angosce nei confronti della vicinanza fisica, vissuta nei rapporti con i propri familiari.
Tutto il sistema familiare sembra vivere sotto l’ombra di una minaccia costante e incombente di un’improvvisa catastrofe che può disintegrare il mondo: l’irruzione dell’emozione profonda.
Se si sta dentro la famiglia e si sente, si pensa, allora vengono fuori dolori così grandi che c’è bisogno di morfina “stare dentro ma non pensare; stare dentro ma non affrontare i problemi che sonno molto dolorosi”.
La matrice mentale sembra essere e segregamente viversi, come molto carente, molto poco attrezzata a pensare le emozioni e gli affetti. A ciò naturalmente si contrappone una struttura di pensiero che può soltanto tentare di esercitare un rigido controllo su tutti gli accadimenti.
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giovedì 27 marzo 2008

La dipendenza affettiva

Dipendenza affettiva

L’attaccamento è alla base di ogni legame affettivo incentrato sulla ricerca di sicurezza fisica e psichica, di stabilità e di benessere in presenza dell’altro. Nel corso della vita diventa un elemento essenziale e si ritrova, ovviamente, nelle relazioni amorose, accanto a due altre componenti ugualmente importanti: la cura e la sessualità, che intervengono in maniera differente a seconda della coppia e delle storie.
Quando un rapporto affettivo diventa un “legame che stringe” in cui si altera stabilmente quel necessario equilibrio tra il “dare” e il “ricevere”, l’amore può trasformarsi in un’abitudine a soffrire fino a divenire una vera e propria “dipendenza affettiva”, un disagio psicologico che è in grado di vivere nascosto nell’ombra anche per l’intera vita di una persona, ponendosi tuttavia come la radice di un costante dolore e alimentando spesso altre gravi problematiche psicologiche, fisiche e relazionali.
Il termine “dipendenza”, se riferito a sostanze, indica uno stato di bisogno fisico e psicologico indotto da quella sostanza sull’organismo; l’individuo dipendente per evitare una crisi di astinenza e le conseguenze spiacevoli che questa comporta, si trova costretto ad assumere la sostanza in modo continuativo e costante. Nelle dipendenze affettive è l’altro a svolgere la funzione di “sostanza”, per cui la sua presenza nella nostra vita diviene un bisogno, una necessità, un vincolo indissolubile, pena la perdita della nostra stessa identità.
Non sempre è il proprio partner l’oggetto d’amore, in alcuni casi può trattarsi del gruppo familiare, dei figli o di una qualunque altra persona con cui si vive una relazione ritenuta indispensabile. Spesso sono i genitori che scambiano un attaccamento morboso e soffocante verso i propri figli con un legame profondo e significativo; sono madri o padri che rinunciano completamente alla loro identità, senza più una vita di coppia ed esistono unicamente in funzione dei figli. Il pericolo in questi casi non è solo l’annullamento della propria identità, ma anche di quella dei figli che, troppo impegnati a realizzare i desideri e le aspirazioni dei genitori, si vedono costretti a rinunciare a quelli che sarebbero stati i loro obiettivi.


Manaham: “una persona che soffre di dipendenza affettiva manifesta un’insana dipendenza da un’altra persona tale da essere completamente coinvolto dall’altro e poco attento a se stesso, con la perdita di potere e di equilibrio personale, identità confusa e confini poco chiari nella relazione con gli altri”.

Melody Beattie: “la persona che soffre di dipendenza affettiva è un individuo che ha permesso al comportamento dell’altro di coinvolgerlo ed è ossessionato dal controllo del comportamento di tale persona”.

Daniel Piétro: “la dipendenza affettiva è una turba della personalità, acquisita durante l’infanzia e perpetuata nell’età adulta, che si caratterizza nel modo seguente: non avendo acquisito un’autonomia durante l’infanzia, l’individuo ricerca nell’età adulta, l’approvazione e la valorizzazione per fondare la stima di sé;
incapace di stabilire da solo relazioni interpersonali stimolanti a partire dalle proprie risorse, l’individuo spera che un legame affettivo con un’altra persona gli permetterà di svelare le proprie qualità e le proprie risorse nascoste; non riuscendo a realizzarsi, l’individuo troverà rifugio o compensazione per esprimere o anestetizzare la propria sofferenza nell’alcol, nella droga, nel consumo eccessivo di farmaci o di cibo e a volte anche nel suicidio”.




Quali sono le caratteristiche delle persone con una dipendenza affettiva?

Una prima caratteristica della dipendenza affettiva è la difficoltà a riconoscere i propri bisogni e la tendenza a subordinarli ai bisogni dell’altro.
L’amare l’altro diventa spesso una forma di sofferenza; il benessere emotivo, a volte anche la salute e la sicurezza, vengono messi a repentaglio per il benessere dell’altro.
Le persone con difficoltà affettiva non riescono a prendersi cura di sé, a creare degli spazi per la propria crescita personale perché sempre prese, in quel momento, da qualche problema del partner che richiede la loro attenzione e la loro energia vitale.
La seconda caratteristica è un atteggiamento negativo verso il Sé, per cui si ha un pensiero del tipo: “io sono cattivo, gli altri sono buoni, mi trattano male per colpa mia, devo cercare di accattivarmeli” (M. Selvini Palazzoni, S. Cirillo, M. Selvini, A. M. Sorrentino, 1998).
Queste persone soffrono di un profondo senso di inadeguatezza.
Sono convinte che per essere amate devono sempre essere diligenti, amabili, sacrificarsi per l’altro per poter ricevere il suo amore. Anche quando questo vuol dire farsi male.
Chi soffre di dipendenza affettiva è ossessionato da bisogni irrealizzabili e da aspettative non realistiche. Spesso, anche se non sempre e necessariamente, la persona amata è irraggiungibile per colui o colei che ne dipende. Infatti, la dipendenza si alimenta dal rifiuto, dalla negazione di Sè, dal dolore implicito nelle difficoltà e cresce in proporzione inversa alla loro risolvibilità.
Quello che incatena nella dipendenza affettiva è l’ingiustificata, assurda, sconsiderata presunzione di farcela. La presunzione di riuscire prima o poi a farsi amare da chi proprio non vuole saperne di amarci o di amarci nel modo in cui noi pretendiamo.

La dipendenza affettiva colpisce, sopratutto il sesso femminile, in tutte le fasce d'età . Sono donne fragili che, alla continua ricerca di un amore che le gratifichi, si sentono inadeguate. Sono donne che hanno difficoltà a prendere coscienza di loro stesse e del loro diritto al proprio benessere che non hanno ancora imparato che amarsi è non amare troppo, che amarsi è poter stare in una relazione senza dipendere e senza elemosinare attenzioni e continue richieste di conferme. Nelle relazioni affettive, queste persone elemosinano attenzioni e continue conferme poiché tutto ciò aiuta a sentirsi sicuri e forti, contrastando così l'impotenza, il disagio, il vuoto affettivo che percepiscono a livello personale.

I pensieri e i vissuti emotivi nella “dipendenza dall’amore” sono principalmente connotati da:

-tendenza a sottovalutare la fatica connessa a ciò che serve ad aiutare la persona amata al punto da raggiungere, senza percepirlo in tempo, livelli elevati di stress psicofisico;
-terrore dell’abbandono che porta a fare cose anche precedentemente impensabili pur di evitare la fine della relazione;
-tendenza ad assumersi abitualmente la responsabilità e le colpe della vita di coppia;
-autostima estremamente bassa e una conseguente convinzione profonda di non meritare la felicità;
-tendenza a nutrirsi di fantasie legate a come potrebbe essere il proprio rapporto di coppia se il partner cambiasse, piuttosto che a basarsi su pensieri legati al rapporto attuale e reale;
-propensione a provare attrazione verso persone con problemi e contemporaneo disinteresse e apatia verso persone gentili, equilibrate, degne di fiducia, che invece suscitano noia.







Bibliografia

Castaldi I. (2001), Meglio sole. Perché è importante bastare a se stesse. Milano, Feltrinelli.
Francois-Xavier Poudat (2006), La Dipendenza Amorosa. Isola del Liri (FR),Castelvecchi
Grad M. (1998), La Principessa che credeva nelle favole, Come liberarsi del proprio principe azzurro. Casale Monferrato, Piemme.
Gray J. (1992), Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere. Milano, Sonzogno.
Norwood R. (1994), Guarire coi perché. Milano, Freltrinelli.
Norwood R. (1989), Donne che amano troppo. Milano, Freltrinelli.
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