Psicolife - psicologia e psicoterapia a Firenze

mercoledì 6 ottobre 2010

I 6 stadi dello sviluppo sensomotorio di J. Piaget

J. Piaget considera lo sviluppo cognitivo nella prima infanzia come intelligenza sensomotoria.
Il periodo sensomotorio è il primo di quattro periodi generali nei quali J. Piaget divide lo sviluppo. A sua volta il periodo sensomotorio è diviso in 6 stadi.
Si pensa che la sequenza di stadi sia assolutamente costante o invariante per i bambini di tutto il mondo. Perciò Piaget affermava che non può accadere che uno stadio sia saltato nel passaggio ad uno stadio successivo né può accadere che il passaggio attraverso gli stadi abbia un corso di sviluppo diverso da quello dato. Le conquiste di ciascuno stadio sono cumulative, cioè le abilità acquisite in uno stadio precedente non sono perdute con l’arrivo a nuovi stadi.
Stadio 1 (da 0 a 1 mese)
Alcuni riflessi quali la suzione, i movimenti oculari e i movimenti della mano e del braccio sono destinati a subire cambiamenti significativi durante lo sviluppo in funzione dell’esercizio costante e dell’applicazione ripetuta a oggetti ed eventi esterni.
Piaget attribuiva molta importanza a questi riflessi perché li considerava come i primi mattoni, forniti in modo innato, della crescita cognitiva umana. Egli li concepiva come i primi schemi sensomotori del bambino.
Stadio 2 (da 1 a 4 mesi)
Questo stadio è segnato dalla continua evoluzione degli schemi sensomotori individuali e dalla graduale coordinazione o integrazione di uno schema nell’altro.
Quindi per quanto riguarda gli schemi individuali associati a processi quali succhiare, guardare, ascoltare, vocalizzare e afferrare gli oggetti, ricevono una quantità enorme di pratica quotidiana spontanea. Di conseguenza ciascuno di questi schemi è sottoposto ad una elaborazione evolutiva considerevole durante questi mesi.
Successiva è la progressiva coordinazione o il fatto che ogni schema è messo in relazione ad un altro, per esempio la visione e l’udito cominciano ad essere collegati funzionalmente. Sentire un suono porta l’infante a girare la testa e gli occhi nella direzione della fonte del suono.
Due altre importanti coordinazioni tra schemi che si stabilizzano bene nel secondo stadio sono quelle succhiare-afferrare e vedere-afferrare. Nel rimo caso, il bambino sviluppa la capacità di portare alla bocca e succhiare la mano e qualsiasi cosa la mano abbia afferrato e di afferrare qualsiasi cosa gli sia in qualche modo entrata in bocca.
La coordinazione di visione e prensione permette al bambino di localizzare ed afferrare gli oggetti sotto la guida visiva e reciprocamente di portare davanti agli occhi per ispezionarla visivamente qualsiasi cosa che una mano invisibile abbia toccato e afferrato.
L’evoluzione della coordinazione vedere-afferrare costituisce uno sviluppo notevole perché la capacità di coordinare mano e occhio dimostrerà di essere un mezzo e uno strumento estremamente importante per esplorare l’ambiente del bambino ed apprendere cose su di esso.
Stadio 3 (dai 4 agli 8 mesi)
Al bambino capita di eseguire qualche azione motoria, spesso manuale, che per caso produce dei risultati nell’ambiente non anticipati ma interessanti. Poi il bambino deliziato, continua ad eseguire l’azione ripetutamente, a quanto sembra per il puro piacere di riprodurre e di sperimentare di nuovo il risultato nell’ambiente.
Il bambino può afferrare e scuotere un nuovo giocattolo e quel nuovo giocattolo può rispondere inaspettatamente con un tintinnio, dopodichè è probabile che il bambino in questo stadio si fermi meravigliato, lo scuota di nuovo ma con esitazione, senta il suono di nuovo, lo scuota ancora una volta più velocemente e con maggiore confidenza e poi continui a ripetere l’azione per un periodo di temo considerevole.
Dal terzo stadio il bambino mostra sempre più interesse negli effetti delle sue azioni sugli oggetti e gli eventi prestando molta attenzione a quegli effetti. Gradualmente comincia ad esplorare gli oggetti; egli diviene cognitivamente e socialmente più estroverso nel corso dello sviluppo sensomotorio.
Stadio 4 (dagli 8 ai 12 mesi)
La maggiore novità di questo stadio è la comparsa di comportamenti che sono intenzionali, diretti ad un fine. Le azioni del bambino hanno un significato e sono dirette ad uno scopo e per questa ragione appaiono più intelligenti e più cognitive di quelle degli stadi precedenti.
Nel quarto stadio il bambino esercita intenzionalmente uno schema come mezzo, in modo da rendere possibile l’esercizio di un altro schema, come fine o scopo. Ad esempio può premere la vostra mano (mezzo) per fare in modo che continuate a produrre un interessante effetto sensoriale (fine) che stavate producendo per lui. Egli ha maggiore riguardo nei confronti del mondo esterno.
Stadio 5 (dai 12 ai 18 mesi)
È costituito dall’esplorazione molto attiva, intenzionale, del tipo pro ed errore, delle proprietà reali e delle potenzialità degli oggetti, in gran parte attraverso la ricerca instancabile di modi diversi di agire su di essi. Il bambino ha un approccio sperimentale orientato alla esplorazione e alla scoperta del mondo esterno.
Se gli si presenta un oggetto nuovo lui cercherà attivamente di mettere a nudo le sue proprietà strutturali e funzionali provando diversi schemi di azione e inventando nuove variazioni su vecchi schemi di azione.
Con la sua tendenza estremamente esploratoria e tesa verso l’accomodamento, il bambino del quinto stadio spesso scopre mezzi completamente nuovi per raggiungere vecchi scopi.
Stadio 6 (dai 18 i 24 mesi)
Questo è costituito dalla capacità di rappresentare gli oggetti della propria cognizione per mezzo di simboli e di agire con intelligenza rispetto a questa realtà interiore e simbolizzata invece che rispetto alla realtà esterna, non simbolizzata.
Il bambino del 6 stadio mostra una capacità iniziale di produrre e capire che una cosa (es. una parola) sta per o rappresenta simbolicamente qualche altra cosa (ad es. una classe di oggetti). Inoltre il bambino diventa capace di differenziare mentalmente il simbolo e il suo referente cioè la cosa che il simbolo rappresenta.
Per fare un esempio di questa differenziazione il simbolo potrebbe essere fisicamente molto diverso dal suo oggetto referente eppure essere ancora trattato come una rappresentazione di quell’ oggetto.
Reagire a oggetti di cognizioni interiori generati internamente, decisamente non è un’attività sensomotoria: funzione semeiotica.
Il bambino simbolico del 6 stadio può provare dei modi alternativi interiormente, immaginandoli oppure rappresentandoli a se steso invece di renderli concreti nel comportamento esplicito. Se viene trovato un procedimento efficace in questo modo, è per mezzo del pensiero invece che attraverso l’azione diretta “invenzione di nuovi mezzi attraverso delle combinazioni mentali”.
Anche il gioco del “far finta” compare nel 6 stadio.
L’intelligenza sensomotoria non scompare con la fine della prima infanzia, anzi alcune forme di funzionamento sensomotorio rimangono disponibili per tutta la vita. Tuttavia una volta che la capacità simbolica è emersa, le forme di intelligenza più alte e potenti hanno luogo su un piano diverso.
I bambini hanno più competenza di quanto J. Piaget pensasse ma non è stato ancora proposto un modello alternativo di vasta portata e completamente soddisfacente.
Quasi tutti gli psicologi sono concordi nel sostenere che l’organismo umano funziona secondo i principi generali dell’organizzazione e dell’adattamento. Concordano nel dire che il bambino costruisce attivamente il suo mondo anziché registrare passivamente gli stimoli esterni e che lo sviluppo cognitivo è il prodotto di continue interazioni tra il bambino e l’ambiente.
Sottolineano inoltre l’enorme importanza del contributo dato dalle ricerche empiriche di Piaget alla nostra comprensione dello sviluppo del bambino e questo nonostante facciano rilevare come il bambino sia più malleabile e meno soggetto ai limiti della maturazione di quanto non credesse Piaget.

www.psicolife.com
Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma

giovedì 9 settembre 2010

Lo sviluppo cognitivo nella prima infanzia come intelligenza sensomotoria: J. Piaget

Secondo J. Piaget ciò che l’infante mostra in modo sempre più chiaro e meno ambiguo mano mano che cresce è la capacità di poter fare azioni sensoriali e motorie organizzate, con un “apparenza di intelligenza” cioè esibisce un funzionamento intellettuale completamente pratico, legato all’azione.
L’infante “sa” nel senso che riconosce o anticipa oggetti o eventi familiari che vede spesso e “pensa” nel senso che si comporta verso di essi con la bocca, le mani, gli occhi ed altri strumenti sensomotori in modo predicibile, organizzato e che mostra adattamento.
L’autore parla di “schema sensomotorio” che ha a che fare con una specifica classe di sequenza di azioni sensomotorie che il bambino compie ripetutamente e abitualmente, normalmente in risposta a classi particolari di oggetti e di azioni. Lo schema è la capacità cognitiva sottostante che rende possibili tali configurazioni organizzate di comportamenti.
Per esempio, del lattante che automaticamente succhia qualsiasi cosa passi per la sua bocca si direbbe che possiede uno schema di suzione, cioè che possiede una capacità duratura ed una disposizione ad eseguire una specifica classe di sequenze motorie (movimenti organizzati per la suzione) in risposta ad una particolare classe di eventi (l’inserzione di oggetti che possono essere succhiati).Una proprietà molto importante degli schemi consiste nel fatto che possono essere combinati o coordinati per formare delle unità più grandi di intelligenza sensomotoria. Mano mano gli schemi elementari vengono gradualmente generalizzati, differenziati e soprattutto coordinati e integrati tra loro in vari modi complessi, il comportamento del bambino comincia a sembrare sempre più “intelligente” e “cognitivo” ed in modo sempre meno ambiguo.
Secondo J. Piaget l’infante è motivato a continuare ad agire nei riguardi di un evento finché non ne ha compreso il significato, cioè finché ciò che era inizialmente incomprensibile è stato reso comprensibile. Ad esempio il bambino esplora e fa esperimenti finché non scopre la causa dell’inatteso rumore forte, mostra segni di estremo piacere e soddisfazione quando la scopre e ripete poi continuamente l’azione di battere con grande entusiasmo. Per J. Piaget questo è un esempio della natura della motivazione cognitiva e del cambiamento cognitivo.
Il bambino si crea nuove esperienze per mezzo delle sue stesse azioni nell’ambiente; alcune di queste esperienze mostrano di essere particolarmente interessanti perché vanno al di là di ciò che essa capisce al momento. Esso poi agisce ulteriormente verso queste nuove esperienze, variando i suoi schemi nello sforzo di arrivare ad una nuova comprensione.
I comportamenti che portano a nuove conoscenze è probabile che vengano ripetuti attraverso azioni, così il sistema cognitivo si avvia verso nuovi e migliori livelli di comprensione.
L’idea è che vi sia una motivazione intrinseca al sistema cognitivo e non proveniente solo da impulsi quali la fame o il dolore.
Il periodo sensomotorio è il primo di quattro periodi generali nei quali J. Piaget divide lo sviluppo. A sua volta il periodo sensomotorio è diviso in 6 stadi.
Si pensa che la sequenza di stadi sia assolutamente costante o invariante per i bambini di tutto il mondo. Perciò J. Piaget affermava che non può accadere che uno stadio sia saltato nel passaggio ad uno stadio successivo né può accadere che il passaggio attraverso gli stadi abbia un corso di sviluppo diverso da quello dato. Le conquiste di ciascuno stadio sono cumulative, cioè le abilità acquisite in uno stadio precedente non sono perdute con l’arrivo a nuovi stadi.

www.psicolife.com
Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma

giovedì 15 luglio 2010

Ontogenesi delle emozioni

Un contributo importante alla conoscenza dello sviluppo delle emozioni, della paura in particolare, è quello fornito dalla scuola comportamentista che sostiene che il dolore gioca un ruolo importante, attraverso il meccanismo dell’apprendimento, per l’acquisizione della paura in situazioni pericolose: il bambino impara ad avere paura del fuoco, per esempio, perché si è scottato.
Dall’altra, l’apprendimento gioca un ruolo fondamentale anche nella genesi della paura per stimoli originariamente neutrali, cioè nelle fobie: secondo Watson è possibile creare risposte condizionate di paura a stimoli neutri, associandoli a stimoli spiacevoli.
Egli creò la paura per un topolino bianco in un bambino di 11 mesi (che in precedenza non temeva affatto tale animale), associando alla presenza dell’animale un improvviso forte rumore.
Successivamente il bambino aveva paura non solo del topolino bianco ma anche di una pelliccia bianca o di una maschera di Babbo Natale, tutti oggetti simili a quello di cui era stato condizionato ad avere paura, attraverso un meccanismo che è stato chiamato la generalizzazione.
La generalizzazione è alla base di gran parte delle emozioni provate dagli adulti; queste ultime, sono spesso scatenate da stimoli analoghi a quelli con cui essi erano venuti a contatto precedentemente e che avevano suscitato una risposta emotiva.
Watson (1924) identificò tre stati emotivi già presenti all’epoca neonatale:
 La paura (espressa con il pianto, con la distorsione dei lineamenti del viso, tremore, arresto del respiro e mani serrate a pugno), in seguito a stimoli come la caduta o un rumore improvviso;
 L’ira (espressa con grida, arresti del respiro, rossori, movimenti delle mani), quando il bambino viene tenuto forzatamente immobilizzato;
 L’amore (atteggiamento sereno, sorridente), se gli si accarezzano le labbra.
Sherman (1927) sostiene che nel neonato esiste una sola ed unica reazione emotiva che potrebbe essere definita come “eccitazione generale” e che le reazioni emotive più differenziate, che generalmente vengono attribuite al neonato, sono in realtà il frutto della proiezione da parte dell’adulto sul neonato di quelle che sarebbero state le sue emozioni.
Hebb D. O. (1958) sostiene che lo sviluppo emotivo non è più solo la conseguenza di associazioni arbitrarie ma tra i suoi fattori comprendono anche i processi cognitivi e percettivi. Il fatto che uno stimolo indifferente dal punto di vista emotivo in una certa fase dello sviluppo divenga significativo in una fase successiva, è dovuta al cambiamento del modo con il quale viene percepito, decifrato e classificato.
Bridges (1932) è stata la prima autrice a studiare la differenziazione dei diversi stati emotivi a partire dallo stato motivo indifferenziato iniziale: da una parte come effetto della maturazione delle strutture nervose e dall’altra come effetto dell’apprendimento.Tale ricerca ha messo in evidenza come quasi tutti gli schemi di comportamento emotivo ritrovati nell’adulto sono già presenti all’età di 2 anni. L’evoluzione successiva consiste in modificazioni sia del tipo oltre che del numero degli oggetti o situazioni capaci di suscitare emozioni.
L’autrice ha osservato che all’età di 2 anni sono presenti la maggior parte degli schemi comportamentali emotivi che costituiscono la gamma espressiva reperibile nei soggetti adulti.
Ha conseguentemente aggiunto che: nei bambini allevati in ambienti normalmente stimolanti lo sviluppo delle emozioni, rilevabili attraverso il comportamento, segue un ordine ben preciso dal quale si può dedurre che certe configurazioni stimolanti sono attive solo ad una certa fase dello sviluppo e di maturazione (fisiologica e cognitiva).
Non si deve però ritenere che l’espressione della ricchezza strutturale del comportamento emotivo sia indipendente dal comportamento o estranea alle catene di condizionamenti ambientali.
Gli aspetti cognitivi di un’emozione variano con l’età, l’esperienza e il contesto.
Nelle prime settimane di vita il bambino ha una consapevolezza limitata ai cambiamenti degli stimoli interni ed esterni, con una componente cognitiva modesta, se non inesistente.
A questo livello le espressioni emotive sono essenziali per la comunicazione dei bisogni immediati del bambino a chi si prende cura di lui e per stabilire il rapporto tra madre e bambino.
Nella primissima infanzia la tristezza è l’emozione “negativa” più frequentemente esperita.
Il grido di dolore essenziale per allarmare che si prende cura del bambino, forma la base per una prima esperienza dell’esistenza di una precisa relazione fra il proprio comportamento e le sue conseguenze. In concreto la manifestazione espressiva di dolore è seguita dall’assistenza e dal sollievo. Questa è una delle prime situazioni che contribuiscono allo sviluppo di una capacità crescente di discriminazione fra sé e l’altro da sé. Al cominciare del terzo mese del primo anno di vita, l’attenzione del bambino si dirige verso aspetti percettivi separati e distinguibili delle persone e degli oggetti che formano il suo ambiente. Compare il sorriso. A questa epoca il bambino piccolo comincia a sorridere in risposta a qualsiasi configurazione percettiva simile ad un volto e tendente ad orientarsi e a spingersi verso di essa.
Il sorriso differenzia un’esperienza positiva particolare, il rapporto con un altro essere umano, da altri eventi positivi e con esso si ha una prima rudimentale distinzione fra l’interazione con il mondo delle cose e quella con il mondo delle persone e soprattutto si ha la prova dell’esistere di una esperienza positiva che non è più funzione dello stato interno del bambino ma delle qualità del mondo esterno da lui percepite.
Il terzo livello di coscienza è caratterizzato dallo svilupparsi dei processi cognitivi. Il bambino comincia ad essere in grado di considerare se stesso come oggetto. Una volta che l’estraneo si rende ben discriminabile dagli individui familiari (intorno al primo anno), si ha il cessare della risposta indiscriminata del sorriso di fronte a qualsiasi volto umano e compare di fronte all’estraneo, la risposta della timidezza e della paura.
Possiamo concludere dicendo che uno stimolo dato può suscitare delle emozioni diverse in relazione al livello di sviluppo percettivo, cognitivo, motorio ed affettivo del bambino e che la stessa emozione può presentarsi di fronte a dati percettivi ed esperienze differenti, in relazione al grado di integrazione cognitiva della realtà, cioè la significato che assumono per il soggetto gli elementi che la contraddistinguono.

www.psicolife.com
Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma

domenica 6 giugno 2010

L’importanza delle cure offerte dalle figure importanti

“Ci sono ormai tali prove da non lasciare alcun dubbio sul fatto che la deprivazione prolungata di cure materne subita da bambino può avere effetti gravi e prolungati sul suo carattere e in tal modo su tutta la sua vita futura” (Bowlby 1953).
Con il termine “deprivazione” si vuole indicare la sottrazione di qualcosa che prima c’era.
“Le affermazioni nelle quali è implicito che i bambini che subiscono una istituzionalizzazione o forme simili di privazione nelle prime fasi della vita sviluppano comunemente caratteri psicopatici o anaffettivi sono scorrette” (Bowlby 1956).
I primi lavori di Bowlby avevano dimostrato che i bambini che facevano esperienza della separazione o della deprivazione, provavano, non meno degli adulti, intense emozioni di dolore e tormento mentale: bramosia, infelicità, proteste rabbiose, disperazione, apatia e ritiro in se stessi. Egli aveva anche mostrato che gli effetti a lungo termine di queste separazioni potevano talvolta essere disastrosi e condurre alla delinquenza nei bambini o negli adolescenti e alla malattia mentale degli adulti. Nel separare un genitore dal proprio bambino veniva rotto un legame fondamentale che lega un essere umano ad un altro.
Attraverso i suoi numerosi articoli, Rutter (1981) porta alla definitiva valutazione empirica della deprivazione materna aggiornando l’opera di Bowlby. Il suo contributo è stato quello di raccogliere ulteriori prove e arrivare alla conclusione che la deprivazione materna possa agire come un fattore di “vulnerabilità” che innalza la soglia del bambino verso il disturbo invece di costituire un gente causale.
Gli elementi fondamentali che caratterizzano l’ambiente culturale sociogenetico sono le figure parentali, i coetanei della stessa specie, l’ambiente fisico circostante, le cui stimolazioni lasciano una traccia indelebile nel comportamento dell’individuo. Gli stimoli segnale caratteristici di queste figure vengono appresi ed assimilati in tenera età. In determinati periodi dello sviluppo ontogenetico essi hanno la possibilità di “stampare” (imprinting) le loro caratteristiche, che poi si manifesteranno in modo coattivo nel comportamento successivo dell’individuo.
Una caratteristica di tale comportamento è che la fissazione sull’oggetto può avvenire in un definito e breve periodo di tempo (periodo critico) della vita dell’animale, generalmente un’età piuttosto precoce.
Pur essendo i periodi critici specificatamente costanti, a volte si osservano delle differenze individuali relativamente grandi. Ci sono cioè degli individui più precoci ed altri più tardivi, per i quali ultimi il periodo sensibile critico può estendersi oltre la durata temporale caratteristica della specie.
La significatività delle ricerche sull’imprinting per la comprensione del comportamento sociale umano nasce dalle ricerche di Wolff, Spitz e Bowlby su bambini privati delle normali cure materne.
Spitz ha definito come “organizzatore” l’intervento materno nel primo sviluppo psichico infantile.
Il rapporto di Spitz sulla sindrome presentata da bambini ricoverati in befotrofio (in una condizione di vita in cui non esisteva alcuna persona che si occupasse individualmente del piccolo) è una testimonianza degli effetti negativi che la carenza totale delle cure materne ha sullo sviluppo dell’emotività, delle psicomotricità e del linguaggio e quindi del comportamento sociale dell’infante.
Questa sindrome, nota con il termine ospitalismo presenta come sintomi principali un abbassamento generale del livello di sviluppo. Tale discesa sia ha dopo il 4° mese (che inizia soprattutto a carico del controllo motorio e posturale).
L’autore ha notato come fino a 4 anni, la psicomotricità fosse estremamente compromessa al punto che a questa età esistevano delle difficoltà nella deambulazione, una incapacità di alimentarsi ed a vestirsi da soli ed una totale incapacità a controllare gli sfinteri. Il linguaggio era al massimo costituito da circa 12 parole risultando di 2 o 3 parole o addirittura assente nella metà dei casi.
Anche quando il bambino arriva all’età scolare, il numero dei vocaboli acquisiti è scarsissimo e la comprensione del vocabolo è rigida ed univoca. La parola a volte è riconosciuta soltanto in un particolare contesto verbale. Il discorso è egocentrico ed il modo di espressione è monotono.
Gli stessi comportamenti emotivi risultano bloccati nel loro sviluppo: l’espressività mimica è rudimentale, la percezione di sé è molto incerta per cui gli stessi bisogni fondamentali come la fame e la sete non sono distinti ed espressi. Di fronte allo specchio questi bambini rimangono indifferenti e non sono capaci di rapporti sociali (inerzia, passività, instabilità). Se a volte si determina un rapporto con una figura adulta, tale rapporto è estremamente possessivo ed esclusivistico.
Anche per un bambino che ha potuto godere per 5 o 6 mesi di un buon rapporto con la madre e poi, per vari ragioni, è privato di questo contatto, dopo 4 settimane dalla separazione: il bambino piagnucola, rifiuta il cibo, non dorme e a poco a poco rifiuta ogni contatto con le persone e con le cose: si isola. Questo quadro clinico è definito come depressione anaclitica ed è regredibile se il piccolo nello spazio di 5-6 mesi può ricongiungersi con la madre: già dopo qualche giorno la sintomatologia scompare. In superficie il comportamento può sembrare garbato ed accomodante ma in realtà i contatti sono anaffettivi.
Da qui, nelle situazioni di crescita in cui manca o è precaria la presenza materna o di un valido sostituto, si ha uno sviluppo della personalità di tipo patologico, in direzione antisociale.
Si può concludere che l’attaccamento filiale o materno è subordinato ad una primaria esperienza sociale che deve avere un certo grado di intensità.
Il nucleo essenziale è che il bambino nasce con una condizione istintiva per effettuare future esperienze sensoriali ed emotive che possono essergli offerte in modo ottimale dalle figure “importanti” che lo circondano e che gli siano vicino in modo amorevole, costante e stabile per un sufficiente periodo di tempo.
Senza questa fondamentale esperienza primaria svolta in un periodo critico che per l’uomo va dalla 6° settimana al 6° mese di vita, il senso sociale non riesce a sviluppare efficaci rapporti con l’esterno.

www.psicolife.com
Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma

lunedì 3 maggio 2010

Debiti di gioco, usura e sovra indebitamento

Da sempre il gioco d’azzardo ha rappresentato un terreno fertile per il diffondersi del prestito a strozzo.
Si rischia denaro perché si crede, in maniera del tutto aleatoria, di ricevere un guadagno in denaro che gratifichi l’investimento. Il bisogno di vincere è la società stessa ad averlo imposto come valore. In questi ultimi tempi è aumentata la domanda delle occasioni da gioco che ha portato all’aumento dell’offerta e dei luoghi in cui giocare.
Il fenomeno dell’usura nasce all’interno di un quadro di sovra indebitamento non più gestibile dal singolo. È proprio il sovra indebitamento da gioco la precondizione necessaria alla caduta nelle mani dell’usuraio, anche se non è sufficiente essere degli indebitati a rischio perché questo accada. Il soggetto che si rivolge all’usuraio è quella persona che si trova ad essere incapace di gestire la crisi e si rivolge all’usuraio considerando questa come la soluzione più semplice al problema. Gli usurai sono persone che stanno nei luoghi di sale scommesse, nei bar, negli ippodromi e aspettano solo che la persona disperata, perché ha perso tutti i suoi soldi al gioco in quella giornata, gli venga a chiedere aiuto, un aiuto che purtroppo costerà caro a quella persona. Gli usurai sanno quando è il momento di avvicinarsi per fare la loro proposta in denaro. Così il giocatore lo ringrazierà e lo vedrà come il suo salvatore, promettendo che presto restituirà tutto il denaro prestato. Ma poi chi è malato di gioco non riesce a fermarsi e perde, perde continuando ad attingere al denaro del suo “amico” usuraio. Come possiamo immaginare i tassi di interesse dei soldi prestati diventeranno sempre maggiori e il giocatore patologico si ritroverà in una situazione ancora più grave e difficile da gestire da solo.
È ormai accertato e lo confermano sia i dati provenienti dall’Istat, sia quelli di altri istituti di ricerca, che il sovra indebitamento è un fenomeno diffuso e purtroppo mostra una curva crescente. Molte sono le famiglie che anche a causa di una costante perdita di potere di acquisto dei propri redditi, non dispongono di risparmi o di una rete familiare in grado di aiutarle. Purtroppo più cresce la cultura del debito, più la società nel suo insieme si trova esposta al rischio di sovra indebitamento.
È utile dire che se da una parte è diritto di ogni individuo aspirare al benessere economico e sociale, dall’altra, la mancanza di un senso di responsabilità individuale nel contrarre una serie di debiti è una forma “patologica” che può essere prevenuta attraverso campagne di sensibilizzazione e curata la dove il problema sussiste (attraverso gli sportelli di aiuto).
Si può intervenire attraverso campagne di sensibilizzazione su fasce della popolazione adolescenziale in modo da prevenire il fenomeno del sovra indebitamento. Esistono associazioni che si occupano di questi problemi e collaborano insieme per spingere la popolazione a chiedere aiuto, un aiuto risolutivo, prima che si cada in mano di persone sbagliata o prima che ci si faccia prendere dalla malattia del gioco.

www.psicolife.com
Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma

sabato 3 aprile 2010

L'integrazione lavorativa

"Disabile e Lavoro" è un quesito che sempre più frequentemente viene posto allo Sportello Disabili. Le opportunità lavorative sono poche e le informazioni per come accedervi non sono facili da trovare. Nonostante le agevolazioni fiscali e contributive a favore dei datori di lavoro, il numero degli occupati rimane sempre basso.
Varie sono le cause: l'ambito territoriale, le caratteristiche ambientali e culturali, la dimensione e la dispersione dell'utenza disabile, la disponibilità e la tipologia delle aziende obbligate all'assunzione. La prima legge sull'inserimento lavorativo delle persone con disabilità (L. 482 del 2 aprile 1968) prevedeva già un sistema impositivo nei confronti delle aziende, obbligandole ad assumere persone con invalidità superiore al 45%. La nuova legge ha mantenuto l'obbligo di assunzione, introducendo però una modalità di tipo consensuale e negoziale tra tutti gli attori coinvolti (disabili, aziende e servizi). L'approccio della L. 68/99 favorisce la conoscenza dei bisogni specifici della persona, mettendone in evidenza le capacità e le potenzialità. L'analisi valutativa viene quindi a configurarsi come un processo attivo, in cui i vari soggetti preposti a realizzare tale funzione sono tenuti ad esprimere un'adeguata valutazione della persona con disabilità, per metterne in luce le capacità lavorative e per individuare quali possono essere gli interventi più adatti a favorire il suo inserimento lavorativo.
Inserimento mirato significa "inserire la persona giusta, al posto giusto". Per far ciò è necessario conoscere la persona nella sua totalità, conoscere le sue attitudini, le sue capacità, le sue conoscenze e le sue potenzialità. E' necessario conoscere le offerte: conoscere la mansione in relazione al luogo di lavoro, agli strumenti lavorativi a disposizione, al vissuto psicologico/relazionale di chi deve essere inserito. Significa rendere accessibili gli ambienti di lavoro, sia sotto l'aspetto logistico (barriere architettoniche), sia sotto l'aspetto psico - relazionale delle persone con disabilità. Ogni persona è diversa dall'altra e le varie invalidità civili sono dovute a molteplici fattori: disabilità motoria o psichica, disabilità sensoriale, patologia psichiatrica, patologia tumorale o altre malattie rare, gravi o invalidanti.
Molto spesso le famiglie delle persone con disabilità si rivolgono agli operatori dei servizi per chiedere se esiste un futuro lavorativo per i loro figli, se anche loro possono avere la possibilità di svolgere un’attività lavorativa ma molto spesso o quasi sempre si sentono dire che il territorio non offre molte opportunità, che non ci sono soldi per finanziare progetti di inserimento lavorativo, insomma che è meglio rinunciare a questo loro desiderio, bisogno. Le famiglie si sentono ancora più sole.

www.psicolife.com
Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma

lunedì 8 marzo 2010

Il colloquio clinico

Il colloquio clinico

Dal vocabolario apprendiamo che il colloquio consiste in una conversazione, un momento fissato tra due o più persone per discutere, scambiare idee: comunicare.
Etimologicamente comunicare significa “mettere in comune”, stabilire un rapporto con qualcosa che non ci appartiene, quindi “essere con” pur mantenendo una distanza.
La comunicabilità si addice alle situazioni di adattamento reciproco, in cui ogni partecipante alla comunicazione impara gradualmente ad entrare nel sistema di riferimento dell’altro non abbandonando completamente il proprio (Jacques, 1992).
Il fatto che un colloquio sia normalmente fissato con anticipo, che esiste un accordo sullo scopo, il tempo, il luogo e le condizioni particolari di attuazione (ad esempio il costo della seduta), introduce delle variabili che caratterizzano fortemente il contesto della comunicazione.
Il contesto all’interno del quale si svolge il colloquio fa da contenitore a questo incontro e dà significato e senso agli scambi.
Il colloquio clinico, come forma di interazione diadica, si configura come un particolare contesto in cui diversi e specifici sono i ruoli svolti dall’intervistatore e dal soggetto.
L’intervistatore dispone dunque delle espressioni e del comportamento del soggetto, unitamente al contesto in cui esse vengono poste in atto.
Esistono infatti delle convenzioni tra gli interlocutori, in primo luogo di origine socioculturale, che collocandoli su posizioni diverse, agiscono sul piano della relazione.
La distribuzione dei turni di parola, per esempio, dipende da convenzioni esterne all’interazione in corso, dall’influsso di regole sullo svolgimento della conversazione, sulle modalità di espressione, sulla gestione dello spazio interlocutorio.
Il colloquio si fonda più che su singoli episodi comunicativi, sul processo di interazione tra gli interlocutori, il quale non può prescindere dagli atteggiamenti dei protagonisti, dalle loro credenze, finalità e motivazioni individuali, che rendono allo stesso tempo irripetibile il suo svolgimento.
Nello svolgimento di un colloquio, lo psicologo è spinto da motivazioni personali, umane, legate ai propri interessi ed alle curiosità verso gli altri, le quali si sono costituite attraverso una serie di scelte che egli ha effettuato nel tempo e che gli forniscono una sorta di sintesi operativa in quel momento.
Il colloquio clinico è una situazione in cui la comunicazione avviene tra due persone che si incontrano più o meno volontariamente, sulla base di una rapporto esperto-cliente.
Sullivan afferma che non è possibile conoscere che cosa turba la vita di una persona, il suo problema, senza avere un’idea abbastanza chiara della persona e di quelli che la circondano, e cioè delle modalità tipiche di relazione.
Uno psicologo che tenga conto della dimensione temporale, non fa riferimento al solo contesto di osservazione (spazio interattivo del colloquio) ma anche al patrimonio interazionale che le persone hanno acquisito negli anni, dando rilievo agli elementi soggettivi (ricordi, aspettative, intenzioni), del tempo vissuto sia individuale che collettivo.
La fisionomia del colloquio è tratteggiata dal metodo di conduzione dell’incontro e dalla unità di osservazione e di analisi.
L’utilizzazione del colloquio a scopo diagnostico o prognostico si basa sul presupposto che, i tratti, le disposizioni, rilevate in una persona in occasione del colloquio, non sono caratteristiche incidentali, casuali, limitate nel tempo e nello spazio alla situazione in esame ma possono essere trasferite ad ambiti più vasti e rilevanti del comportamento.
Tuttavia questa sostanziale identità, questa complessiva stabilità, non deve far dimenticare le molteplici potenzialità di una persona. Infatti, una relativa unità, continuità e costanza che è possibile riscontrare nella condotta di ognuno, non deve far credere che la persona sia un sistema “monovalente”.
Essa è piuttosto un sistema “multivalente”, cioè dalle potenzialità molteplici, in quanto si è formata attraverso l’apprendimento di numerosi “ruoli” psicosociali.
Nei rapporti interpersonali della vita quotidiana, la tendenza a generalizzare, partendo da un aspetto limitato del comportamento, porta ad una semplificazione, ad un appiattimento deformante nella “percezione” della personalità.
Bisogna evitare che si verifichi anche nel colloquio clinico.
Consapevole di questa facile tendenza alla generalizzazione, lo psicologo dovrà sempre formulare le proprie ipotesi con riserva, proponendosi di verificare, mediante l’assunzione di ulteriori informazioni, la prima impressione riportata.
Deve assumere un atteggiamento di ricerca prudente.

www.psicolife.com
Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma

venerdì 29 gennaio 2010

La coppia genitoriale

I bambini devono avere accesso ad entrambe i genitori.
Molto spesso sono le donne ad occuparsi maggiormente dei figli. Teniamo conto certamente del periodo della gravidanza e di quanto una donna si senta già mamma e poi il periodo post parto, il momento dell’allattamento, il rimanere a casa con il neonato per mesi prima di tornare a lavoro. Sono tutti elementi che rendono il rapporto tra madre e figlio molto stretto e intenso. Da qui può sorgere la difficoltà di un papà di entrare a far parte di questo rapporto.
Se i padri vengono esclusi dal rapporto o si escludono loro stessi, le conseguenze possono essere:
 La madre si sente abbandonata ed il padre la giudica incompetente nel rapporto con il figlio.
 Il padre si sente sminuito e poco importante, tutto ciò che riguarda i figli è compito della madre.
 I figli iniziano ad occuparsi dei bisogni della madre (diventano “madri” o “compagni della madre”) e tutto questo porta ad una maggiore distanza nella coppia e il bambino a prendere un ruolo che non gli compete ed a caricarsi di responsabilità non sue.

I figli hanno bisogno di entrambe i genitori. Essi devono agire “insieme” nel rapporto con loro e soprattutto non uno contro l’altro. Questo presuppone che essi si rispettino nel loro modo di essere genitori. L’effettivo rispetto si evidenzia quando un genitore accoglie con benevolenza il comportamento del partner nei confronti dei figli e non interviene per correggerlo davanti al figlio.
Un’altra cosa molto importante è che all’interno della famiglia, la coppia genitoriale deve ritagliarsi uno spazio per la coppia marito e moglie. Essi devono creare e proteggere spazi e tempi da sfruttare solo per se stessi.
Alcune donne si rassegnano, si sottomettono al proprio destino nel senso che si assumo il carico della gestione dei figli, della casa, del lavoro e portano per anni il peso del “carico” fino ad esplodere. Sono donne che difficilmente sanno chiedere aiuto, sono donne “forti” ma non abbastanza da portare troppo a lungo un peso del genere sulle proprie spalle.
Dall’altra i mariti-padri, si sentono sempre più estranei a casa, hanno sempre meno da dire e la vita sessuale diventa sempre meno frequente: si crea uno sbilanciamento di potere e la coppia entra in una crisi coniugale.
Quando vengono in terapia è perché arrivano nel corso di una “crisi”.
In genere la donna riporta sentimenti di rabbia per non sentirsi compresa dal compagno come donna e non sentirsi aiutata abbastanza come mamma. Dall’altra anche l’uomo non si sente più compreso da lei e sente che è stato tagliato fuori da quel rapporto così intimo tra madre e figlio, quel figlio che sembra aver preso il suo posto, quello di “compagno della madre”.
Lei: “per tutti questi anni ho fatto tanto per la famiglia ma tu non ti sei mai accorto di nulla, ora sono stanca, non provo più sentimenti di amore per te”.
Lui: “ma io ho sempre cercato di aiutarti e starti vicino ma tu non me lo hai permesso; io lavoravo e tornavo tardi per portare i soldi a casa, per la nostra famiglia; se non ci pensavo io che ci pensava?”.
La terapia di coppia aiuta i due a riscoprirsi di nuovo come partner, ad ascoltarsi l’uno con l’altro forse come mai non avevano fatto prima e cioè nell’essere più schietti ed espliciti nei propri bisogni. A ritrovare o a trovare quella complicità non solo come coppia di partner ma anche come coppia genitoriale, senza più quei giochi di potere che “servivano” a ferire l’altro/a.
www.psicolife.com
Psicologia e Ipnosi Terapia
a Firenze e Roma